Mamma, se rinasco voglio essere uno zaino. Uno di quelli belli grandi e capienti, con tanti scomparti.
Ma soprattutto uno di quelli che prendono i veri viaggiatori, di cui non puoi fare a meno solo se devi fare il viaggio della vita. Vorrei essere uno di quegli zaini perché se ne vanno a spasso per il mondo, il loro tessuto si consuma di esperienze, giorno dopo giorno. Certo dovrei sopportare lo stress dei controlli al confine, il buio della stiva degli aerei, lo sporco delle strade, la claustrofobia dei box degli ostelli. Ma credo ne valga la pena.
Vorrei avere due begli spallacci ben imbottiti ed una forma ergonomica che si adatti al meglio alla schiena del mio amico. Vorrei essere impermeabile per far bene il mio lavoro in caso di pioggia.
Vorrei evolvermi poi col mio compagno di viaggio, trasformandomi da semplice contenitore di oggetti a contenitore di emozioni, sensazioni, incontri. Potrei infine ambire ad una meritata pensione in qualche dimenticato sgabuzzino o in un garage. Mangiato dalla polvere, accanto a vecchi arnesi, potrei sperare di rimanere l’ultimo forziere di ricordi di qualche avventura, l’ultimo baluardo di esperienze indimenticabili. Dovrò essere forte perché il mio compagno di viaggi potrebbe all’improvviso trascurarmi, assorbito dal lavoro e dai figli, dalla quotidianità, dalla vita “normale” dell’uomo comune.
Sarebbe bello diventare per lui qualcosa di più, essere una presenza costante nella sua vita. Non relegato ad un’isolata esperienza di gioventù, ma simbolo e strumento di uno stile di vita all’insegna della natura, del movimento, della libertà. Tirato in ballo periodicamente per riportare il mio alleato ancora sul sentiero più selvaggio, sulla cresta più irraggiungibile, sulla spiaggia più incontaminata.
Quando andai in Sud America correva l’anno 2020. Anzi non correva, camminava abbastanza lentamente a dire il vero.
Io e Benno avevamo deciso di partire. Era stato lui a mettermi la pulce nell’orecchio ed io avevo fatto presto ad entrare in quella che a distanza di più di un anno non chiamerei più “crisi”, ma “momento di lucidità”. Mollai la mia vecchia vita e accettai l’incertezza.
Te lo ricordi, mamma? Qualche giorno prima di decollare ero passato a salutarti. Ero arrivato con il mio enorme container di bagagli dal nord e avevo occupato illecitamente lo scantinato con le mie cose. Tu già ti lamentavi da un po’ per quella stanza che stava diventando il deposito delle cose dei figli, il residuo di svariati traslochi.
Fu in quei giorni che presi la decisione di rivolgere a te quel diario che avrei voluto scrivere durante il viaggio. Per certi versi sarebbe stata la prosecuzione “on the road” del quaderno in cui, da circa un anno, avevo preso l’abitudine di appuntare i miei pensieri, certamente più intimi e personali. Avrei mantenuto con te una quotidiana corrispondenza. Probabilmente per tranquillizzarti sarebbe bastato vedere sui social qualche mia foto in cui me la passavo bene. Ma mi divertiva l’idea di unire la semplice cronaca del viaggio con una sorta di piccolo esperimento relazionale. Saresti stata tu la mia interlocutrice. Questo gioco di cartoline dal mondo volevo raccoglierlo in un blog. In un mare di #travelblogger e #wanderluster, io puntavo tutto sulle ansie della mamma.
Mancava solo il nome, che venne fuori pochi giorni prima di partire, grazie ad un brainstorming con Marco: “Scrivimi quando arrivi”. Adesso sì, adesso potevo prendere quell’aereo per San Paolo. Il Sud America mi aspettava.
E così fu.