Ci sediamo su una roccia, gli dico che mentre venivo su ho incrociato la strada con un altro tipo di pastore, un prete, e che forse anche lui si preoccupa dei lupi. Il pastore mi risponde che in questo posto la sola presenza dell’uomo è testimoniata dalle cave e dalle chiese e si è sempre chiesto come mai due attività così superflue ai fini di una vita genuina siano arrivate fino a qui.
Forse le ricchezze materiali e spirituali possono essere valide ragioni. Non mi stupirebbe se l’Antropocene vedesse l’uomo conquistare il Sistema Solare, erigendo miniere su Saturno e chiese sulla Luna.
Il pastore lancia un fischio e batte due volte le mani. Mi dice che odora l’arrivo di un temporale e che è meglio portare il gregge verso il rudere.
Bisogna ripararsi perché qui alla tempesta non gli stai sotto: gli stai dentro.
Mi alzo e mi metto a spalle lo zaino, nello stesso tempo i cani hanno già radunato il gregge.
Dopo venti minuti di cammino riesco a intravedere la rovina di pietra dove quest’uomo passa le notti d’estate e tratta le bestie.
Il cielo ha cambiato umore con una rapidità capricciosa.
Le prime gocce di pioggia ci cadono sul viso e la voce di un tuono sembra volerci ricordare la nostra condizione precaria.
Le cave bianche hanno assunto una colorazione opaca pesante.
Gli animali vengono condotti al riparo e il pastore mi fa entrare nella struttura eretta in pietra. Una sola grande stanza, un soppalco con un letto, un divano scabro, un camino, un tavolino e un mobile antico.
Osservo i movimenti di quell’uomo, comodi nella sua tana, ancestrali. Mentre mi consegna un formaggio e una bottiglia di latte, lo pago. Lo ringrazio. Poi mi sento simile a lui, suo alleato gemello. Di cosa hanno bisogno due tipi come noi? Cosa possono rivendicare su questa terra? Ci vedo parlare con un’unica voce, fino a sentirci dichiarare che, oggi, non proviamo mancanza dei nostri genitori, di una vita possidente, di un’educazione selettiva o di un Cristo morto in croce.
Abbiamo noi stessi e quello che siamo diventati ci basta.
Siamo due uomini semplici, con bisogni modesti e obiettivi umili.
Viviamo in un mondo incomprensibilmente grande, sofisticato, e non sentiamo il bisogno di scomporlo o padroneggiarlo. Non siamo come gli altri uomini che bramano i lapislazzuli custoditi nel cuore della Terra. Non siamo come chi, professando misericordia, specula sulla costruzione del ponte tra Messina e Città del Vaticano, tra Uomo e Dio.
E se quest’uomo, la mattina, fa il segno della croce sul secchio della mungitura come vuole la tradizione pastorale, io lo perdono, perché in lui questo rituale ha un significato riscoperto. Così come il mio perdono ha un rilievo laico.
La montagna erosa, là fuori, è testimone del nostro bilancio.
Spero non essermi sbagliato di troppo e che mi sia concesso di sentirmi simile a un pastore.
Il temporale sembra aver preso un’altra direzione.
Lo saluto e mi faccio accompagnare per qualche metro da una corte di cani dal pelo sudicio. Poi accarezzo le bestie e le invito a tornare a casa.
Non appena metto in moto l’auto vedo di nuovo il prete.
Immagino che mi bussi sulla portiera.
«Buondì», mi direbbe.
«Salve».
«Ha visto che tempo? Sembrava dovesse venire giù il cielo, ma ora c’è di nuovo il sole».
«Già».
«I temporali, di questi tempi, non sono più genuini, figliolo».
«Padre, noi non siamo più suoi figli. E presto non saremo più uomini», risponderei.
Guido lentamente, attraversando la vegetazione, nel ritorno.
Sento che il paesaggio, dentro di me, è stato usurpato per molto tempo.
Mi mando giù nelle mie cave emozionali, facendo attenzione a non scivolare laddove il percorso diventi più sleale.
So che per rimanere vivo devo devolvere e assecondare il richiamo selvatico. Devo porre il confine con la natura esterna, ma non devo più sottrarmi alla mia natura animale. Non devo più pregare una scienza o studiare una religione.
Sarò empatico eppur severo, rispettoso tuttavia violento.
Solo allora potrò smettere di essere uomo. Vivere, e morire senza paura, senza lucro.
Saprò dove cercare un mio territorio personalissimo e imparerò come risparmiarlo dai miei avanzi sintetici. Non lo eroderò. Lo rispetterò e ne sarò custodito.
Poi inizierò a decompormi.
Tornerò a essere genuino. Lupo per metà. O pecora. Iena, serpe, leone.
Troverò una nuova tana, mi occuperò di un mio gregge e migrerò fin dove, di nuovo, un luogo saprà intridersi di me, perfettamente.