Continuiamo a superare altri escursionisti. Più volte “avvistiamo” una coppia intenta a baciarsi, che appena ci intravede si scioglie, rimettendosi in cammino: beato chiunque qui porti baci ed amore. V’è poi una famiglia; alcuni dei suoi elementi che calzano sandali di gomma, mi fan pensare che equipaggiamenti inadeguati non v’erano solo in guerra. Vi sono infine alcune rientranze nella roccia, una volta ristori e ripari, oggi improvvisati bagni dove fazzoletti bianchi sbandierano l’attuale inciviltà.
Intuiamo di essere ormai prossimi alla selletta delle Porta del Pasubio ed al rifugio Achille Papa che poco prima delle ultime gallerie compare, addossato ad una parete rocciosa, nella sua tenue vesta gialla: somiglia un uomo che con le spalle indietreggia nel timore di precipitare nella sottostante Val Canale.
Ci avviciniamo al rifugio, che sorge proprio dove 100 anni fa erano presenti ricoveri in muratura e baracche, chiamati el Milanin, la piccola Milano e prima d’essere accolti dai protocolli Covid, siamo raggiunti dalle parole d’una lapide: “Chi ha salito senza palpiti d’amore/questo Calvario della Patria;/ chi non sosta con animo purificato/su questa roccia gloriosa,/non entri in questo Rifugio,/né contempli da queste libere altezze/ la dolorante fecondità del piano e il mistero dei cieli.” Condividiamo ogni verso e l’urgente necessità di simili parole perché è fin troppo evidente: l’uomo d’oggi non rivolge attenzione ai suoi simili, figuriamoci ad un luogo …
Il rifugio è semi deserto. Il tempo d’un the caldo così come di assicurarci la cena e ci rimettiamo in cammino, raggiungendo il bivacco Marzotto-Sacchi e fra fresche nebbie il Sentiero Tricolore fino al Cogolo Alto.
Un Regio Decreto del1922 rese questa area “Zona Sacra”, una beatificazione che rende grazia ad ogni struttura, oggetto, centimetro incontrato, trasformando anche i resti arrugginiti di filo spinato che spuntano fra le rocce, in preziose reliquie.
Compare il rudere di una struttura militare per le retrovie; s’intuiscono traiettorie di teleferiche che comunicavano col fondo valle ed un grande bacino d’acqua con un lavatoio in cemento. Ai 2232 metri di Cima Palon ci infiliamo nelle gallerie non senza timore e scendendo alla Selletta Damaggio giungiamo al Dente Italiano sotto al quale, macabro tesoro, giacciono decine di uomini, vittime di mine.
Una preziosa brezza spazza le nuvole ma anche ogni dubbio sul senso di questa guerra: dinanzi a noi, a meno di 200 metri, la terra di nessuno della selletta dei Denti ed oltre il Dente Austrico con i suoi 3 piani. Uno per 10 postazioni di mitragliatrice, uno per 6 pezzi d’artiglieria e l’altro per la logistica che prevedeva lanciabombe, lancia granate, lancia fiamme.
Non c’è nessuno, siamo solo noi e questo evita ogni distrazione, anche se qualcuno dice che per capire la trincea, più che di solitudine, ci sia bisogno d’inverno, fame, odori.
Qui dove i due schieramenti erano tanto vicini da poter dialogare ed i pidocchi saltavano dalla regia divisa a quella imperiale, si visse l’indescrivibile, con diverse strategie. Dal maggio 1915 fino a metà del 1916 fu la presa del fronte e lo stazionamento, poi vennero gli attacchi frontali ed infine si consolidarono le retrovie volendo offendere con mine. La più potente fu austroungarica, preparata con 50.000 kg di esplosivo e brillata alle 4:30 del mattino del 13 marzo 1918: modificò così profondamente il terreno rendendolo tanto instabile da impedire ulteriori scavi per altri ordigni. Ciò che è certo e riconosciuto anche dai Kaiserjäger, fu il coraggio e l’astuzia costante degli alpini, definiti dai nemici “Teufel mit der Feder”, Diavoli con la penna.
Il camminare diviene desolato, rasserenato solo da camosci e tanti fiori, alcuni dei quali nelle trincee stesse. Avanzo con passo saldo eppure percepisco un barcollare che nei modi s’appoggia alle traballanti Gnossiennes di Satie; con un simile moto entro ed esco dalle trincee, dalle gallerie, ricercando qualche cimelio. Trovo così una scheggia di ferro arrugginito, grande quanto una moneta e proveniente chissà da quale proiettile: la raccolgo e la prendo meco. “Recuperante” d’oggigiorno, di certo non lo scambierò col pane, solo lo custodirò come un prezioso reperto e ricordo.