Finora non ho mai superato i 3342 metri della Marmolada.
testo e foto di Katia Tormen / Borgo Valbelluna (BL)
Finora non ho mai superato i 3342 metri della Marmolada, quindi non ho mai sperimentato la cosiddetta “fame d’aria”. Ma il giorno in cui mio padre morì mi sono sentita come un’alpinista che finisce l’ossigeno della bombola a 8000 metri.
Sensazione di spaesamento, spossatezza, incapacità di coordinare i pensieri… una sorta di mal di montagna dove la montagna era la vita che avevo davanti e che ora avrei dovuto salire da sola nonostante papà mi avesse ripetuto migliaia di volte che per monti non si va mai in solitaria. Di lì a poco avrei compiuto 18 anni, fatidica porta d’ingresso nell’età adulta con tutti i suoi riti di passaggio ai quali mai avrei immaginato di non averlo al mio fianco.
Passò quel giorno, passò il compleanno e ne festeggiai molti altri, ma mentre avanzavo con passo spedito, più spesso incerto, attraverso i sentieri tortuosi dell’esistenza, percepivo la presenza di un vuoto (può sembrare un ossimoro ma non lo è) che si faceva sempre più grande.
Era successo all’improvviso, non avevo nemmeno avuto il tempo di dirgli quanto gli volevo bene e, pur non essendo credente, avevo sperato che in qualche modo mi fosse data l’occasione per farlo. Pensavo che magari mi sarebbe apparso in sogno o che avrebbe palesato la sua presenza con spostamenti di oggetti o improvvise folate di vento, ma evidentemente avevo guardato troppi film perché, dopo oltre due decenni, stavo ancora aspettando e la cosa stava diventando un problema. Ero preda di una sensazione sconosciuta, che aveva a che fare con la rabbia e la frustrazione. Ero irritabile, scostante e triste.
Preso atto che le cose non potevano che peggiorare, su consiglio di un’amica mi rivolsi ad un esperto di elaborazione del lutto, tale dottor Speranza, che riuscì a trovare un buco nella sua fitta agenda e mi ricevette due giorni dopo alle 10:45. Post meridiane.
«Mi scuserà per l’inusuale orario» mi disse ricevendomi nel suo studio al secondo piano di una palazzina su Viale della Rimembranza. «Lei non ha idea, o magari invece ce l’ha, di quanta gente ogni giorno subisce una perdita e sente il bisogno, prima o poi, di confrontarsi con la propria sofferenza. C’è chi perde un genitore, chi un fratello, chi un amico, un animale, un oggetto…».
«Un oggetto?» lo avevo interrotto perplessa.
«Certamente! Un anello regalato dal grande amore defunto. Oppure un importantissimo documento di lavoro che serviva per un salto di carriera. Addirittura chi ha perso il treno che lo avrebbe portato ad una svolta della vita! Anche a queste persone devono trovare un modo per smettere di soffrire, smettere di pensare a ciò che poteva essere e non sarà, smettere di vivere di ricordi. L’alternativa è smettere di vivere proprio!».
Il dottor Speranza mi concesse quarantatré minuti del suo preziosissimo tempo facendoseli comunque pagare come un’ora intera. Ascoltò la mia storia, prese atto delle mie problematiche e mi congedò con una fattura da 150 euro e parole che non mi sarei mai aspettata di sentire: «Se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna. Lo cerchi dove sa di trovarlo e vedrà che i suoi crucci spariranno!».
Decisi di seguire le indicazioni del luminare e pur non avendo dubbi su quale fosse il luogo in cui cercare ne avevo molti invece sul fatto che sarei mai riuscita a raggiungerlo.
Finora non ho mai superato i 3342 metri della Marmolada.
Mio padre amava la montagna, adorava camminarci ma anche lavorarci, si trattasse di fare legna per l’inverno o fieno per gli animali che avevamo nella stalla. Gli piaceva fare escursioni sia sui rilievi più mansueti, dove portava anche noi figli, che sulle alte cime dolomitiche che frequentava con gli amici o i colleghi di lavoro. Ma c’era un monte che per lui era come un faro, sapeva riconoscerlo da qualunque punto di osservazione e passava un sacco di tempo a percorrerne col suo inseparabile binocolo ogni canalone e ogni guglia. Per un motivo o per l’altro non era mai riuscito a salirlo, contava di farlo una volta in pensione. Gli sarebbero mancati due anni.
Su quell’immensa cattedrale di pietra c’era una sola via che non richiedeva doti alpinistiche ma era comunque lunga, ostica e priva di alcun riparo in caso di emergenza, cosa che rendeva necessario percorrerla in giornata. Per me, a complicare le cose, si aggiungevano i chili di troppo e la vita sedentaria degli ultimi anni. Eppure sentivo che dovevo almeno provarci.
Per prima cosa mi recai in un negozio specializzato in articoli da montagna. Il commesso mi accolse fregandosi le mani, non so se inconsciamente o con cognizione di causa. Gli spiegai qual era il mio obiettivo, gli dissi il mio budget, piuttosto sostanzioso, e lasciai a lui il compito di dotarmi di tutto ciò che mi poteva servire. Lo vidi sparire dietro una porta che pensai portasse nel magazzino e attesi a lungo prima di sentire nuovamente i suoi passi. Rimasi a bocca aperta quando, invece di vederlo comparire carico di zaini, giacche, scarpe, e borracce, mi accorsi che in braccio teneva un cane.
«Ecco tutto quello che ti serve!» mi disse sorridendo e porgendomi l’animale. Lo fissai allibita.
«Un cane? Ma a me non serve un cane!».
«Certo che ti serve, solo che ancora non lo sai!» ribadì risoluto e mi congedò senza dar seguito alle mie obiezioni.
Investii parte dei soldi che avevo risparmiato in ciotole, pappe e guinzagli e cominciai la mia vita con Sherpa.
Il fatto di avere un cane da portare a spasso mi costrinse a fare movimento, dapprima brevi giri nei pressi di casa, poi camminate sempre più lunghe fino ad arrivare alle escursioni vere e proprie. Il quadrupede pareva nato per camminare in montagna, mi precedeva sempre di qualche passo e sembrava riconoscere il giusto sentiero da prendere senza bisogno di indicazioni da parte mia.
Nel giro di pochi mesi avevo perso parecchi chili e acquistato muscoli e fiato. Tornai al negozio di articoli sportivi per ringraziare il ragazzo e ne uscii equipaggiata dalla testa ai piedi.
«Vedi? Se tu avessi acquistato tutto la prima volta, ora avresti dovuto ricomperare mezza roba. Non bisogna mai avere fretta di fare le cose e questo vale soprattutto in montagna, anche se oggi sembra che la velocità sia il parametro principale con cui misurare tutto. C’è un’altra regola non scritta che mi sento di aggiungere: in montagna non si dovrebbe mai andare da soli non tanto per motivi di sicurezza quanto perché se un’emozione non è condivisa è come se non si fosse mai provata. Anche per questo ti ho dato il cane. Non so che tipo di persone tu frequenti, ma quell’animale è sicuramente migliore di almeno la metà di esse. Buona montagna!».
Arrivò agosto ed io e il mio Sherpa ci avventurammo per sentieri poco battuti, perché se non è indicato andarci da soli, per monti non si dovrebbe andare nemmeno in troppi e alcuni luoghi blasonati erano ormai diventati meta di veri e propri pellegrinaggi.
Raggiungevamo cime che non avevano nemmeno un nome percorrendo sentieri che non avevano nemmeno un numero. Andavamo per tracce o ad intuito e se ci capitava di arrivare in un punto dove Sherpa non riusciva a proseguire, tornavamo sui nostri passi. Ci erano precluse le vie ferrate e i tratti di arrampicata, ma sapevo che per salire quella montagna non ne avrei trovati quindi era una rinuncia che non mi pesava.
Quando settembre arrivò a disperdere la folla e a rendere l’aria più fresca, decisi che era giunto il momento di far fruttare l’allenamento e l’esperienza accumulati.
Albeggiava appena quando ci incamminammo.
Il quadrupede pareva nato per camminare in montagna.
Partimmo da casa che era ancora buio senza incontrare anima viva. Anche sul piazzale alla partenza del sentiero la nostra era l’unica auto. Non appena aprii lo sportello Sherpa schizzò fuori annusando l’aria e correndo all’impazzata, eccitato, come se percepisse che quella giornata aveva qualcosa di particolare. Albeggiava appena quando ci incamminammo. Per i primi minuti proseguimmo agevolmente per una strada forestale che in breve si trasformò in mulattiera proseguendo in leggera sopra un profondo vallone da cui giungeva il rombo di un torrente. Ero emozionata, credevo fortemente che quel giorno sarebbe successo qualcosa di speciale, e nonostante la smania di fare in fretta cercai di mantenere un passo costante. Rientrava fra i consigli che da piccola mi ero sentita ripetere come una litania. Gli altri erano: lasciare detto dove si va, portarsi sempre dell’acqua, vestirsi a strati, salutare le persone incontrate. Di tutti, quello che avevo assolutamente sempre rispettato era l’ultimo. Giovani, anziani, donne, bambini, cani, a tutti avevo sempre elargito un cenno, una parola o un sorriso. Per contro non avevo sempre ricevuto lo stesso trattamento, ma non me ne sono mai crucciata né l’ho mai interpretato come atto di maleducazione. Come le montagne, nessun uomo è uguale all’altro e ciascuno ha il proprio carattere, chi più aperto, chi più severo, e bisogna saperli accettare tutti.
La prima ora di cammino si svolse all’ombra di un fitto bosco di faggi, poi la vegetazione si fece più rada e il sentiero cominciò a guadagnare quota con stretti tornanti lungo un costone erboso punteggiato di stelle alpine. Marmotte grassocce sbucavano curiose dalle loro tane lanciando fischi acuti ai quali Sherpa rispondeva con ringhi sommessi ma senza lasciarsi distrarre. Lui trotterellava instancabile mentre io arrancavo piegata sotto il peso dello zaino e dei mille pensieri che affollavano la mia mente.
Per quanto cercassi di fingere che non fosse così, ero consapevole che quell’ escursione avrebbe, in ogni caso, segnato un punto nella mia vita. Se lassù non avessi trovato un segno della presenza di mio padre non lo avrei comunque cercato più.
Oramai il sole era alto sopra le nostre teste, camminavamo da quasi quattro ore con rare pause per bere o mettere qualcosa sotto i denti. Doppiato un torrione che sembrava stare in piedi per miracolo riuscimmo finalmente ad intravedere la cima. Il cuore accelerò i battiti: mancava poco al momento che tanto avevo atteso e a stento riuscii a trattenermi dal mettermi a correre. Non avevo fatto i conti però con il fatto che quella montagna avesse una vetta elusiva. L’elusività, prerogativa anche di alcuni rifugi consiste nel fatto che la vetta o la costruzione si spostano all’avvicinarsi dell’escursionista anche più volte mettendo a dura prova fisico e mente.
Ci volle un’altra ora abbondante, con il superamento di alcuni brevi tratti assicurati che fortunatamente al cane non crearono alcun problema, ma finalmente la croce di vetta comparve a segnalare la fine delle fatiche. Tremavo per l’emozione. Sherpa che mi aveva preceduto cominciò a ringhiare. Affrettai il passo, ma grande fu la delusione quando oltre al cane trovai solo un povero gracchio di montagna che volò via lesto ad unirsi ai suoi simili.
Mi sentii d’improvviso stanchissima. Stupidamente avevo permesso alla fantasia di prendere il sopravvento sulla razionalità. Mi sedetti vicino alla croce e tolsi da sotto alcuni massi un cofanetto di latta che verosimilmente conteneva il quaderno di vetta. Sul coperchio una scritta mi mise a corrente del fatto che su quelle pagine non si doveva scrivere nulla ma leggere ciò che qualcun altro aveva scritto per noi. Trovai la cosa piuttosto strana, tuttavia presi il quadernetto e feci scorrere le pagine fino a trovare il mio nome. Riconobbi immediatamente la scrittura minuta e inclinata a destra.
Era sempre stato un tipo di poche parole, ma avevo imparato a capire anche i suoi silenzi, per questo in quel “Brava, popa!” lessi la conferma che in tutto quel tempo mi era sempre stato vicino e l’esortazione a continuare a frequentare la montagna.
Finora non ho mai superato i 3342 metri della Marmolada. Finora…