Cammini concentrato, nella luce timida del mattino che fatica a farsi spazio tra gli alberi fitti del bosco. Il tempo vola se si pensa solo a mettere un piede davanti l’altro. Sinistro, destro, sinistro, destro. In un attimo sei già all’attacco della via. Indossi l’imbrago, sistemi i friend e metti in ordine le ghiere, metti le scarpette a scaldare nel pile, chiudi la zip, e fili la corda nello zaino. Solo una volta terminato questo rituale alzi gli occhi verso l’alto. Guardi in faccia la tua scelta. Il primo tiro è un diedro inquietante. Sembra più difficile di quanto non sia in realtà. Non ti lasci impressionare, bevi un sorso di the e insieme a esso, inghiottisci ogni dubbio. Zucchero contro l’inquietudine. Fissi lo zaino al primo spit, a quindici metri da terra, sistemi il Matik e, finalmente, parti per il tuo viaggio. Eppure non è l’inizio: ti chiedi se ogni passo che hai compiuto in tutta la tua vita ti abbia portato qui. Adesso.
Camminiamo fra neve e falaschi e malgrado l’aria pungente d’autunno sentiamo caldo, e sudiamo. Gocce salate come memorie. Le offriamo come sacrificio agli dèi delle montagne. Due poiane danzano sincrone vicino alle pareti di roccia. Oggi non c’è nessuno che le prova a salire. Ci siamo solo noi, ancorati al terreno, e tu, che non ci sei eppure sei ovunque. Tua madre indossa i tuoi vestiti, tuo padre – quando sorride – il tuo sguardo. Sei nelle lacrime non scese e sulla pelle che non si è bagnata. Sei dentro e intorno.
Il granito si fa spazio con irruenza nella carne delle tue mani. I muscoli si stanno scaldando e ti muovi preciso, controllato. Ti godi ogni movimento che ti porta verso l’alto, fino alla sosta del secondo tiro. Ti appendi, torni allo zaino, insegui i tuoi passi.
Prima di partire per il quarto tiro sai che da questo momento dovrai dare del tuo meglio per incastrarti con quelle placche intagliate dall’acqua e dal vento. Verticali, meravigliose, obbligate. Scali bene; la tua mente è solida e il corpo in forze. Ti senti sempre meglio, appiglio dopo appiglio.
La necessità di perfezione ti avvicina a se stessa, esigendo concentrazione e silenzio. Non esiste più niente oltre l’aria che ti circonda. Non esiste il mondo a valle e anche tu, man mano che sali, stai svanendo. Quel ragazzo che stava scalando da solo non ti ricordi più nemmeno chi sia. Ti volti indietro e guardi in sosta, aspettandoti di trovare qualcuno che ti stia facendo sicura, ma vedi solo la corda, scivolar via dal tuo zaino e correre fino alla tua vita.
Scendi, sali ancora. Sali ancora, scendi, sali. 9 tiri come fossero 18. Sei il capo-cordata che arrampica deciso, e sei il secondo che segue veloce. Il decimo tiro è delicato e precario. Un cavallo che prova a liberarsi del tuo peso di dosso. Hai traversato sotto un tetto, rimontato e rinviato e adesso ti ritrovi, 12 metri lontano dall’ultima protezione, a dover rimontare con un piede su uno knob – un cristallo di granito sputato dalla parete; come una bolla di sapone rimasta sulle labbra. Il sapere cosa devi fare non lo rende più facile. Inizi il movimento concentrato, ti muovi con delicatezza, carichi a poco a poco il peso ma ad un certo punto senti che stai perdendo l’appoggio. Un nodo in gola. Non puoi cadere. La perfezione ti richiama a se stessa. Sospiri, rinvii. Continui la tua danza dal battito accelerato e dai movimenti controllati. Un lento, al ritmo di tamburi africani. Tumtum tumtum tumtum.