testo e foto di Achille Rumolo / Napoli
Alcuni aliti di vento sembrano arrivare per imbracciare pensieri sghembi e soffiare nella cornucopia dell’anima. Come quelli che mi hanno spinto a pedalare indefessamente dalle falde della radura erbosa al punto apicale del bosco, e sanno ancora inconfondibilmente di spensieratezza ed incoscienza.
Salire per sentieri come questi è sempre stato inevitabile per me e per i miei occhi, che dell’attraversamento della brulicante e olivastra vegetazione, così rigida ma anche così filamentosa, hanno fatto un must della gioventù.
Ho 15 anni e pochi mesi, frequento l’etere boschivo della Rocca Matessina da alcuni giorni, per vacanza, e scoprire che con la bici si può arrivare dove all’auto è precluso (non ho neanche la patente) è una sfiziosissima rivoluzione copernicana del tempo libero. La mia famiglia, corazzata di amorevole senso di coesione, si trattiene in lungaggini e vacuo chiacchiericcio da intrattenimento post pranzo, e io, che disdegno quel cliché così obsoleto, me ne vado in avanscoperta per i tragitti quasi cunicolari del bosco che sovraneggia la pianura.
La bici del locatore della casetta al rifugio, depositata in un casolare buio adiacente l’ingresso esterno, un po’ sverniciata sul telaio blu scuro, è una risorsa da sfruttare al mio ma anche al suo massimo. È una portentosa Scott mtb, credo del 2006, con ammortizzatore, freni e ingranaggi del cambio e dello shimano ancora di ottima resa; la cavalco toccando appena il terreno con la punta delle scarpe. Questo contribuisce a galvanizzarmi a stare in equilibrio in sella e non adagiarmi sui lati da potermi scoordinare o squilibrare.
È una bicicletta da adventuring, stabile e che ammortizza bene le asperità dei rovi del terreno e tutte le scoscese e zigzaganti insenature della boscaglia, prevalentemente rude, impervia, abbondante di cose, molte delle quali ostacolanti o frangiflutti.
Mi viene facile inerpicarmi tra le polipesche ramificazioni della fitta natura brada, arrischiare di farmi male frenando appena, destreggiandomi tra i solchi infingardi o sulle discese ripidine che gonfiano il cuore di adrenalina, specie quando percepisco la perdita di grip della ruota posteriore, prefigurandomi capitombolato nelle frasche. Lì dentro c’è della vita vera, che sia immota o in acrobazia.
Il viaggio che intento di percorrere, ogni volta che mi inoltro per sentieri senza traccia e in pendenza, è di mera avanscoperta, di fantasia iperbolica, desiderio impavido, alterigia di visione, atarassia del sentire. Una marcia a mala pena scrupolosa sul tellurico bassopiano selciato, setacciando poesie in miniatura tra gli anfratti boschivi.
La natura non è mai inconsistente, più la si attraversa e più ce ne si impregna, in una simbiosi mistica di mutuo donarsi, a pelle, nelle ombre che si sovrappongono, ad esalazioni espianti la fatica, tra ciuffetti d’erba e di ricordi, nel silenzio lussureggiante delle pinete di alberi abbarbicati su poggiali sinuosi.
L’inizio del percorso è solitamente piacevole per corpo e mente, in questa occasione però avverto una leggera stanchezza alle gambe, figlia delle escursioni nei dintorni dei giorni addietro. Ma il coraggio indomito mi fa proiettare oltre lo sforzo ed incedo sullo sterrato in preparazione per la salita più irsuta. La montagnola comincia a restringere il campo visuale e il viatico per la cima è una tortuosa impennata in altura, una spiralizzante e concentrica pendenza che ad ogni albero crociato di rosso sul tronco, mi sembra di aver superato un cerchio del purgatorio Dantesco.
La salita è sfinente, specie per le energie nervose, l’aria sbuffa a favore, sembra di non arrivare mai e la poderosità delle pedalate diventa più tenue e meno efficace. Ma c’è una sensazione di assorbimento chiasmatico che mi inamida addosso, come di padronanza dell’ambiente. Me ne sento unificato nella materialità della mia presenza in un ambiente estraneo, così ricolmo di colori e odori, rumori impercettibili e soffusi. Mi calamita a sé come il richiamo metafisico del bosco.
Sono trascorse due ore, sforate ampiamente, ho sostato per riposarmi solo pochi gaudenti minuti di calma spergiura, l’acqua della borraccia è finita, la stanchezza credo sia tangibile sul mio volto e la bici inizia a pesarmi come un’incudine sui quadricipiti.
Ma non ho desistito neanche un attimo dal mio intento di arrivare fin su al bosco per scoprire se c’è una fine alla verticalità o è come l’orizzonte del mare. Ma sento che ci sono quasi, vedo un pertugio nella basculanza dei rami afflosciati. Sono arrivato, quasi.
Prego Dio, nella fervida pretesa che amerò il ricordo di raggiungere un luogo inaccessibile a tanti, più di quanto stia valendo la pena vederlo. Perché quando si mette un passo avanti all’altro, si può sentire l’incertezza di sollevare un piede e la bramosia di raggiungere la meta, risalendo verso la luce. La strada dell’anima per consegnare a sé stessa il dono del proprio sguardo.
Ottocento metri più in là, leggermente al di sopra di un dosso grande quanto un ippopotamo accovacciato, vi scorgo il tratto terminale dell’ascesa, irradiato di luce dorata. Oltre c’è solo il cielo, e di notte le stelle. L’incanto si vaporizza nell’aria e io sono rigogliosamente lieto di quello che ho fatto. Ho trovato un posto infungibile, sopra le menti, che non credevo neanche esistesse.
Smonto caracollante dalla sella. Tergiverso in direzione opposta alla bici, lasciata a mezz’aria adagiata su di un tronco storto, impalato su un rigonfiamento del terriccio, di cui sono quasi certo di non poter fare totale affidamento. La controprova pochi istanti più tardi quando ormai lontano dalla bicicletta, la sento gradualmente virare sempre più verso il basso e tonfare al suolo con un vibrante “pramm”.
È lì che comincio la mia commedia umana, come nei migliori romanzi di Flaubert o Balzac, stavolta al centro dell’universo, della corrispondenza ideale di conoscenza con gli elementi della natura sensibile, ci sono io. Mi trovo dove voglio essere e non vorrei essere altrove.
Un chiostro di rami a cielo aperto, che sembrano tante riproduzioni antropomorfe di Dedalo e Icaro, avvinghiati in una morsa di concentricità quasi voluttuosa, solida, augusta, pregevole.
In quel ginepraio di radici esposte ed avviluppate su stesse, vi scintilla la tracciante del sole che filtra a tergere le foglie di oro e quella miasmatica mistura di odori desueti. Sopra, l’aureola celeste tinta di nuvole sospese a mezz’aria.
Un mondo insondabile, sepolto sotto stratificazioni di storia senza personaggi, in perpetua transizione nel colore delle lamelle che trasducono la grazia biologica o nell’immarcescibile fusto delle cortecce secolari, rinnovantesi su sé stesse centinaia di volte. La biosfera mi si riversa indosso nel prisma di bagliori. Da qui sù posso vedere tutte le mie difficoltà nel salire, posso sentire tutti anche se non li vedo.
Mi distendo in corrispondenza del mirino del sole e mi lascio colpire a palpebre serrate.
Il mondo mi ha lasciato solo per qualche tempo sul monte e in quella solitudine ho risvegliato i sensi sopiti dal chiacchiericcio sedimentato sotto la noia triviale di ogni giorno; ed ho scoperto che essere testimoni della realtà naturale è accettare che esista un universo senziente che fa sì che le cose più grandi di noi trovino un posto dentro noi.
Sdraiato sull’amaca del mio sorriso, inneggio parole insipienti al cielo in tramonto, una calotta infiammata, smerigliata da scie dardeggianti scoccate al principio del nuovo avvenire, in un’inebriata dimenticanza di me.
Quegl’attimi curativi, impreziositi dal sibilato del fruscio ad andamento lento degli alberi e dalla tavola colorimetrica che mi sovrasta, li custodisco nello scrigno della memoria come il momento apicale della mia vita terrena.
Da quel momento detesto l’ostentazione di opulenza sfrenata delle società coeve, consenzienti al disboscamento screanzato dei polmoni d’ossigeno del pianeta, che non osservano scrupolosamente il rispetto per l’intorno dei propri ambienti, che non hanno la capacità di amare la natura e tutte le sue variegate manifestazioni e che forse non sono neanche attoniti spettatori dello spettacolo dei boschi e delle montagne come lo sono io, assediati dall’antropocene del progresso fittizio, in cui tutti ambiscono a riconoscersi.
Nel transeunte tra terra e cielo, il mio impulso principale è l’assimilazione dell’atmosfera del piccolo monte, come un’ebbrezza vivida di me stesso, sottratto alla dinamicità del tempo. Il romanzo di formazione della mia infanzia, il momento in cui ho appreso di saper trasformare un sapere in un’azione.