Reportage

#35 ZAINO IN SPALLA, CUORE IN GOLA

Tre ragazzi, due corde, un solo splendido Gran Sasso – giugno 2020

testo di Francesco Maini  / Monteporzio Catone (RM)

12/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

Zaino in spalla, cuore in gola

di Francesco Maini

Sono le 3:00 Am e, nonostante siano diverse ore che provo ad addormentarmi, la mia mente non vuole saperne di dormire, continua a viaggiare, forse vuole solo assicurarsi che quello che sto vivendo non sia un sogno, che sia tutto reale.

Oppure non dormo semplicemente perché sono accovacciato sui sedili anteriori di un furgone, dentro un sacco a pelo, illuminato da una luna piena che stanotte sembra essere un faro.
Il tempo passa e i miei occhi si chiudono, in fondo non è così male dormire in questa strana posizione, bisogna solo ricordarsi di muovere ogni tanto le gambe, intrecciate tra la portiera e il volante, e fare attenzione all’ingombrante freno a mano quando ci si gira.

5:30, il giorno ha invaso il furgone senza timidezza, sembra che si siano svegliati anche Pietro e Giorgio, che invece sono coricati nella parte posteriore del furgone su un letto ad una piazza e mezzo improvvisato.
Dopo qualche indugio dovuto all’ora insolita, decidiamo che è ora di essere efficienti ed uscire dal nostro caldo rifugio.
Fuori l’aria è fresca, ma non aggressiva, con le gambe ancora intorpidite sistemo le ultime cose nello zaino, mentre Pietro prepara una ricca colazione.
Giorgio è ancora a letto e non sembra essere coerente con i suoi geni svizzeri, che in altre occasioni invece si presentano prepotentemente.

Dopo un veloce check del materiale, partiamo, sono le 7:15 e, nonostante mi abbiamo abbondantemente criticato per il mio abbigliamento poco alpinistico, sono eccitato per essere tornato a camminare in montagna.
Durante gli ultimi due mesi e mezzo, trascorsi dentro casa, tra quattro mura, una delle cose che mi rendeva allegro era ricordare questi momenti: gli scarponi che scrocchiano sulla ghiaia, l’erba che lascia la brina sui miei polpacci, potermi muovere liberamente in un luogo isolato dal mondo, in cui si può ancora sentire il profumo della terra umida.
Ed ora ci sono: sto camminando su in sentiero di montagna, in salita, e mentre il respiro si fa affannato, penso a quanto sia stupendo tutto quello che ho di fronte.
Davanti a me Giorgio tiene il passo con legate alle spalle due bambole di corda, alcuni cavalli ruminano indisturbati in questi sterminati prati, dietro di loro si erge il Paretone in tutta la sua imponenza e, se si osserva bene, si può vedere una casetta su uno sperone di roccia: è il rifugio Franchetti.

Dopo circa un’ora e mezzo di cammino, arriviamo al versante sud-ovest della seconda spalla del corno piccolo; qui il sole non è ancora arrivato e la differenza di temperatura è evidente.
Indossiamo i caschetti e ci prepariamo per la via indossando imbrago e ferraglia varia.
Giorgio e Pietro si giocano con la sacra e inviolabile legge del “Chin Chun Clan”, la precedenza sulla via, e dopo un’intensa sfida, vince Pietro… evidentemente Giorgio è fortunato in amore.
Così diamo un’ultima sbirciata alla guida, individuiamo la via e cominciamo la salita.
La roccia è gelata e le mani sembrano non rispondere bene ai comandi per il freddo, ma poco importa, finalmente stiamo scalando e non c’è temperatura che possa freddare il nostro animo.
Il primo tiro che saliamo è “Amore Gambini”, composto da 6 vie che ci porteranno in cima alla seconda spalla.

Lungo il primo tiro cerco di riprendere confidenza con questa scalata strana, che per me è poco spontanea: cerco di tenere il peso ben distribuito ora su quattro, poi su tre appoggi saldi.
Non ci si può permettere di scivolare o di staccare per errore pezzi di roccia dalla parete, perché metterebbe in pericolo me e gli altri due compagni di cordata.
Procedo quindi con delicatezza e, nonostante mi senta ancora un po’ arrugginito, dopo una decina di minuti sono alla prima sosta montata con cura e precisione da Pietro.
Continuando l’ascesa riesco a sciogliermi ed essere sempre più fluido; ora le mani riescono a sentire la roccia ed i piedi si spostano con precisione sulla parete.
Finalmente mi sento a mio agio, il vento mi accarezza e riesco a godermi la salita.

Siamo al quarto tiro, Giorgio sta salendo mettendo le protezioni, ma ci impiega molto tempo, evidentemente qualcosa gli impedisce di salire con fluidità.
Intanto io e Pietro aspettiamo appesi alla sosta che stavolta è esposta e scomoda.
Ora un vento gelido sembra schiaffeggiarci e non passa molto tempo prima che i miei denti comincino a battere come un picchio che scava il suo nido nel tronco di un albero.
Ripenso alle critiche sui miei pantaloni corti… ahimè, avevano ragione.
Per fortuna il mio tremolio viene interrotto dalla mia corda tesa: Giorgio è alla quinta sosta ed ora tocca a me salire.
Il movimento della scalata non basta a scaldarmi del tutto e non riesco a rimanere concentrato.
Arrivato a 3/4 della via mi rendo conto che Giorgio ha messo una sola protezione negli ultimi 15 metri; questo vuol dire che in caso di caduta se la sarebbe vista brutta, così capisco perché avesse impiegato molto tempo a salire quel pezzo.
Comincio ad avvertire un senso di nausea che viene amplificato quando, arrivati in sosta, ci troviamo attaccati uno all’altro nella convergenza di un canale.
Non appena la vista diventa annebbiata, capisco di non sentirmi benissimo, allora cerco di distendermi appeso alla corda e, nonostante la posizione non sia delle migliori, dopo qualche minuto mi riprendo.

Verso le 13 siamo in cima alla seconda spalla, abbiamo salito gli ultimi 100 metri in una specie di conserva, dato che la scalata non era complicata.
Finalmente è l’ora di rifocillarsi, ma conoscendo quanto conti per Giorgio lo spazio ottimizzato nello zaino, le mie aspettative sono molto basse… infatti non mi sbaglio: mangiamo una barretta velocemente e si riparte per il secondo tiro.

Dopo una ventina di minuti passati su un ghiaione ad individuare la via da prendere, troviamo l’attacco di Mario di Filippo, una via di 5 tiri di difficoltà V+.
In lontananza dei nuvoloni neri provano a mettere in dubbio la nostra salita, ma dopo aver dato uno sguardo veloce al meteo, decidiamo comunque di salire.
La parete è stupenda e la roccia è solida, ammiro con quanta sicurezza e professionalità Giorgio e Pietro si muovono tra le fessure del Corno Piccolo.
Ora sembra quasi di nuotare: mano alta, piede destro all’altezza dell’anca, sinistro poco sotto e bracciata di sinistro per superare la mano destra.
A volte i piedi sono su micro appoggi di dubbia tendenza, ma il vento ed il freddo rendono l’attrito della scarpetta sulla roccia efficace.

La parete non regala nulla, nonostante la difficoltà teorica non sia troppo elevata, comincio ad accusare la fatica ed i piedi nelle scarpette cominciano a ribellarsi allo stare imprigionati in quella gabbia di gomma da ormai 6 ore.
Mancano due tiri alla cima, Pietro è nell’ennesima fessura difendendosi contro la gravità con degli incastri di ginocchio, che gli consentono di mettere qualche Friend durante questa difficile scalata in “dulfer”.
Saliamo gli ultimi 100 metri immersi nella nebbia che sale veloce, portandoci in una situazione di isolamento totale dalla realtà.

Ora eccomi, è fatta: con un movimento di anca da boulderista, faccio leva sulla gamba per portarmi in piedi sulla sommità della parete.
Pietro mi stringe forte la mano, Giorgio smette di slacciarsi le scarpette, e ci abbracciamo carichi di gioia e di soddisfazione.
Sono felice: 7 ore di scalata impegnativa e continuativa, 11 tiri saliti per un totale di circa 550-600 metri, siamo arrivati.
Le nuvole sembrano essersi dileguate con discrezione, sotto di noi la Val Maone, con davanti gli imponenti pilastri di Intermesoli; in qualche canale si può scorgere ancora qualche cumulo di neve che quest’anno sembra non abbia voluto far compagnia a lungo a questa montagna, forse perché non ha nevicato molto o forse a causa delle temperature insolitamente elevate.

Dopo 10 minuti di camminata arriviamo alla croce, che segna la quota di 2650 m.
Il tempo di bere un goccio d’acqua, scattare due foto all’incredibile panorama e già ci apprestiamo a scendere.
Percorreremo la via normale per circa un’ora fino al rifugio Franchetti, poi un’altra ora e mezzo fino a “Clementino”, il furgone di Pietro parcheggiato a Prati di Tivo.
Durante la discesa cominciamo a fantasticare sul cibo che mangeremo una volta arrivati, un po’ perché lo stomaco comincia a dare prepotenti pugni, un po’ per ignorare il dolore alle gambe affaticate.

Passata l’ultima collina, dall’alto vedo tre figure in lontananza: sono sicuramente Flavia, Maddalena e il piccolo cucciolotto di Maddi dai mille nomi.
Io lo chiamo Gnoccolino.
Sono contento di vederle, così ci salutiamo e distrutti, finalmente possiamo fermare le nostre gambe che ormai si muovevano da sole da circa 13 ore.
Mentre le ragazze montano la loro tenda, prepariamo alla svelta l’abbondante aperitivo che ci aspetta: pecorino, varie tipologie di salami, taralli e parecchia birra… non ci facciamo mancare nulla.

Essendo incerti sulla cena che avrebbe portato Romolo da Roma, arriviamo alle 20 con lo stomaco pieno, ma poco dopo, con grande sorpresa, Romolo scende dalla macchina con quantità industriali di arrosticini e salsicce.
Decidiamo così di accendere un bel fuoco per scaldarci e fare la brace.
Mentre ceniamo, tra racconti e mani unte, Flavia prende dalla macchina la sua chitarra: ero sicuro che l’avrebbe portata.
Proviamo così a strimpellare qualcosa e vedo che è migliorata molto dall’ultima volta che l’avevo sentita.
Gnoccolino prova ogni tanto ad entrare con noi nel cerchio attorno al fuoco, ma la sua attrazione per i nostri arrosticini è troppo forte per poter instaurare una convivenza pacifica tra noi e lui… d’altronde è un pastore maremmano e non sarà un piatto coperto ad impedirgli di rubare una salsiccia.

La luna si alza da dietro il Monte Camicia e il fuoco si affievolisce; molti decidono che è ora di concedere al proprio corpo un po’ di riposo, ma io preferisco rimanere un altro po’ davanti a questa brace che timidamente mi scalda ancora.
Non passa molto tempo prima che Maddalena mi raggiunga: anche lei è scout, ed evidentemente conosce anche lei la magia della danza di un fuoco morente.
Dopo una piacevole chiacchierata, gli occhi si fanno sempre più pesanti e capisco che è ora di riposare. Così ci salutiamo e, mentre spengo del tutto le ultime fiammelle, penso a quanto sia importante riconoscere la bellezza e la profondità dei momenti vissuti oggi.
Allora entro in tenda, mi infilo nel mio caldo sacco a pelo e finalmente dormo soddisfatto, pronto per ricominciare domani.

_____
foto:
1. Prati di Tivo (ph. Francesco Maini).

2. Risveglio con vista Gran Sasso (ph. Francesco Maini).
3. Giorgio sull’ultimo tiro di “Mario di Filippo” (ph. Pietro Lamaro).

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Francesco Maini

Francesco Maini

Mi chiamo Francesco, ho ventuno anni e alla musica tuonante delle casse preferisco la quiete della foresta all'alba; Ad una manicure, la magnesite sotto le unghie; Ad un paio di pantofole calde, il gelo degli scarponi. Nel mio zaino, in montagna, c'è sempre spazio per quadernino e penna.


Il mio blog | Sul mio profilo instagram cerco di lasciare traccia delle esperienze che vivo, posti che vedo, sensazioni che provo. Credo che la scrittura e la fotografia siano il miglior modo per trasmettere emozioni. Non ho un blog/pagina digitale, eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale.
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