Le chiome dei faggi già illuminate dal sole sono verdi
testo e foto di Filippo Macchi / Formigine (MO)
Al termine di un lungo inverno trascorso tra le quattro mura di casa, mi sono svegliato a primavera senza più energie.
Le poche evasioni durante i mesi bui si sono tutte infrante contro il muro implacabile di un cuore ormai vecchio e incline a dare di matto sotto sforzo. Prendere coscienza dell’età che avanza e dei conseguenti limiti fisici che impone, è un trapasso lungo, lento e doloroso.
La primavera che incalza mi spinge a lasciare la sedentarietà per esplorare luoghi sconosciuti a lungo inseguiti e sognati durante gli ultimi mesi. Il dubbio però di aver perso quel feeling con la Natura coltivato negli ultimi sei anni con fatica e sudore mi avvolge come un cappotto tetro e pesante. Lasciare l’alcova sicura della casa per incamminarmi lungo sentieri inesplorati è quanto di più faticoso m’impongo di fare.
Calzo gli scarponi e m’incammino lungo una strada forestale che in breve diviene sentiero. Il sentiero si fa velocemente complicato. Risalgo lungo un torrente in piena guadandolo a più riprese e cercando di farmi strada attraverso gli sfasciumi che l’inverno particolarmente nevoso appena concluso ha provocato. Alberi spezzati ovunque. Cespugli e intrichi di rami ostruiscono il passaggio a più riprese. I dubbi aleggiano sinistri nella mia mente. Sono anni che non si faceva strada quella famosa domanda: ma sono proprio sicuro? Chi me l’ha fatto fare?
Non sono concentrato, né sull’ambiente che mi circonda, né su quello che sento. In una sorta di stato di ansia pre-attacco di panico, proseguo la salita cercando di non incappare in una qualche scivolata che potrebbe rivelarsi rovinosa.
Sono tre anni che voglio venire in questo bosco. Il bosco della Barba. Intrigato dal nome, letto innumerevoli volte sulle cartine escursionistiche, ho però sempre prediletto altre mete a questa. Probabilmente perché qui vieni solo se ti interessa veramente il bosco e nient’altro. Infatti, il sentiero che risale il costone tagliandolo in diagonale è semplicemente un luogo di passaggio. Dalla partenza, Ponte S’Anna, all’arrivo, Passo Boccaia, si è sempre immersi nella vegetazione, di scorci panoramici nemmeno l’ombra, di zone di sosta o altre amenità nessuna presenza.
Oggi però sono qui per lui, per il bosco della Barba.
Ma a parte questo, non trovo gli stimoli per esplorare questo luogo. La mente ed il cuore sono altrove e come sempre capita in queste situazioni, la frenesia di andare e tornare domina incontrastata le mie decisioni. Impacciato ed affaticato finalmente mi lascio alle spalle il torrente ed esco nuovamente su di una comoda strada forestale. Ignoro quanto dislivello abbia fatto, ma finalmente il pendio allenta la presa e gli enormi faggi che dominano il bosco prendono il possesso dell’orizzonte. Slanciati e spogli verso l’alto, creano una coreografia che in altri giorni mi avrebbe emozionato se non commosso.
Certo riconosco il pattern, ma fatico a trovare quella sintonia dei giorni passati.
Le chiome dei faggi già illuminate dal sole sono verdi
Prendere atto di questa frattura è molto doloroso, ho paura. Prende corpo la consapevolezza di aver gettato al vento quanto di buono costruito negli ultimi tempi. Provo a voltarmi per guardare da dove vengo ed intravedo il lungo percorso che ho disegnato in tanti anni. È un percorso contorto, spesso decorato di salite vertiginose, ma sempre con una chiara direzione. Seguo le orme che dal passato arrivano fino a qui, fino ai pochi centimetri da dove i miei scarponi affondano nelle foglie dello scorso anno adagiate a terra. Volgo lo sguardo avanti ma non vedo nessun cartello ad indicarmi la via, né sentieri da seguire.
Sono solo e senza punti di riferimento.
Con un grande sforzo di volontà riprendo il cammino addentrandomi nel bosco e cercando di ascoltare quanto questo silenzio abbia da dirmi. Mi guardo intorno alla ricerca di spunti fotografici. Il sole finalmente penetra nel bosco, ma anche lui oggi è un po’ malato e a fatica disegna quelle ombre a me tanto care.
Lascio il sentiero per addentrarmi tra i tronchi di faggio. Mi abbandono su questo letto infinito di foglie secche. Guardo in alto, lassù dove il sole ha già cominciato da giorni a toccare i rami più alti e scorgo timide foglie di un verde acceso tremare mosse da una leggera brezza. L’oppressione che sento sul petto mi impedisce di lasciar andare i pensieri più cupi. Vorrei abbracciare le foglie, i tronchi. Vorrei ritrovare una pace che non ho da anni e che ora nella sua rabbia più profonda diventa incontenibile.
Scatto qualche immagine sfruttando le poche ombre presenti. Osservo questi alberi, sempre uguali ma sempre diversi tra loro. Conosco ormai a memoria questi tronchi. È da quando ero bambino che li osservo. In ogni stagione so cosa hanno da offrire.
Oggi sto cercando di ascoltarli nella speranza che mi aiutino a ritrovare se non la pace almeno la retta via per riprendere il mio cammino di vagabondo. Oggi muovere un passo provoca una sofferenza indicibile, ma continuo a camminare. Dietro di me il nulla. Mi volto per guardare da dove vengo, ma non ci sono sentieri, né piste, né altri segni del mio passaggio. Prendo coscienza che dopo di me non verrà nessuno. Questo pesante tabarro fatto di solitudine è ormai il consueto cappotto che indosso ogni giorno. Oggi ne prendo finalmente atto e questo cammino salvifico sta portando alla luce quello che l’inconscio già sapeva.
Avanti, un passo dopo l’altro, un albero dopo l’altro, il bosco dirada e vecchie piazzole di carbonai si mostrano in tutto il loro bagaglio storico. Il cammino mi ha portato su un nuovo versante, il sole illumina finalmente la costa e gli esili tronchi esposti a meridione mostrano la promessa di una verde estate. In alto sul crinale che si sviluppa davanti a me, la neve brilla come solo la Via Lattea sa fare di notte. Tanta, tantissima neve ancora aggrappata alle rocce alimenta con la sua fusione mille rigagnoli, come vene foriere di vita, anche loro trasportano a valle la linfa che alimenta questo mondo. Ma questo momento idilliaco è solo una parentesi di qualche centinaio di metri. Le ombre inghiottiscono nuovamente il mio percorso e lo scarpone non affonda più nelle foglie ma morde arrabbiato la neve.
Oggi vorrei proprio arrivare al Passo Boccaia. Ho sognato questa concatenazione con il sentiero che sale dal lago Santo da anni. Medito il da farsi. Ascolto le tante voci che affollano la mia testa, ma l’unica che urla più forte è sempre lei, è la voce della paura. Mi faccio forza e mi convinco a proseguire. I movimenti si fanno impacciati come non mai ed ogni passo è uno sforzo psicologico senza precedenti. I fusti neri di faggi ora si stagliano netti contro il candore del suolo. Ma io di questa bellezza non riesco a scorgere nulla. Ogni mia attenzione è rivolta al terreno. Con gli scarponi saggio il suolo. Lentamene proseguo.
Finalmente il tanto temuto fattaccio accade. Un ponte di neve cede. Io cado nel vuoto. Inaspettato quanto atteso. Ma sono in piedi, sono intero.
Le ramificazioni di un faggio maestoso
Un sole malato disegna ombre morbide nel bosco
Quanto sono caduto? Dieci metri? Venti? No solo pochi centimetri. Il caso ha voluto che il terreno fosse piatto e nessuna asperità a piegare queste caviglie che già su questi sentieri tanti anni fa hanno lasciato una buona fetta della mia sicurezza. Mi guardo intorno, ascolto il mio respiro affannato e cerco di fare ordine nei pensieri.
Che cos’è la forza di volontà? In questo momento non ne ho la più pallida idea. Cerco di mantenere la calma, cerco di dare un filo logico alle valutazioni che automaticamente stanno prendendo forma nella mia mente. I ricordi di una rovinosa scivolata di tanti anni prima si riaffacciano alla memoria come fosse ieri. Il dolore acuto di un tradimento che non è fisico ma simbiotico. La perdita di una delle poche certezze rimaste intatte nella mia vita. L’interrompersi di un percorso intrapreso con la leggerezza della giovinezza.
In questo momento le sto rivivendo tutte condensate in un unico secondo. Non ho più vent’anni, ed oggi non è il 1998.
Respiro e decido per l’unica scelta che in queste condizioni abbia un senso. Mi giro e mi avvio verso da dove sono venuto. Le poche certezze che avevo rinforzato lungo la salita in questo momento si sono semplicemente sciolte come gelato al sole. Impietrito ed irrigidito cammino come un automa impacciato. Finalmente la neve è alle mie spalle ed il petto respira nuovamente. In alto le nuvole corrono veloci nel cielo. I rami spogli protesi come braccia in preghiera mi impongono il loro silenzio.
Cado in ginocchio, una lacrima scivola su di una foglia secchia. Un altro fallimento da aggiungere all’elenco delle centinaia che si accumulano nella teca che custodisco gelosamente dentro di me. Guardo in alto lasciandomi abbagliare dal sole e scivolo lentamente sulle foglie aspettando che il cuore ritrovi il suo ritmo. Non ci sono risposte alle tante domande che affollano la mia mente. Fare pace con se stessi non è mai facile. Oggi lo è ancora meno.
Dopo aver consumato tante energie, fisiche e nervose, ritorno a mani vuote da dove sono venuto. Riconosco il sentiero che mi ha portato fino a qui, è un sentiero erto, di quelli che tolgono il fiato e fanno bruciare le gambe, ma è anche un sentiero irto di arbusti pungenti e fronde boscose tenebrose, è un sentiero costellato da macchie di sangue e cicatrici. È il sentiero della vita, della mia vita. È un sentiero che sono sempre più stanco di percorrere, perché è un sentiero senza meta.
Oggi ero qui per raggiungere quel punto, lo volevo veramente tanto, lo volevo soprattutto per me, volevo il bosco della Barba, volevo dimostrarmi che non tutto era perduto, che ancora esisteva quel filo sottile che mi unisce a questo ambiente. Nonostante la delusione sulla quale rimugino mentre perdo quota, dentro di me si fa lentamente strada la consapevolezza di dove mi trovi e del perché sono qui.
Un barlume di raziocinio in un mare in tempesta di pensieri inutili mi riporta a galla e mi ritrovo a gioire di quanto fatto finora, sì oggi, nonostante la mesta ritirata. Oggi non sono rimasto sul divano, mi sono alzato alle 5, ho fatto quasi due ore di auto per arrivare in questo luogo. Sì, sono vivo e lo so perché sto soffrendo.
Saluto il bosco della Barba con la certezza che a breve calcherò nuovamente il suo sottobosco, ma più di tutti saluto me stesso con un abbraccio.
Riconosco la fatica, lo sforzo e la resistenza. Nella descrizione di quanto hai sentito e di come ne hai fatta esperienza è possible trovare le fatiche quotidiane, ma soprattutto quelle che ci prendono anche quando dobbiamo fare qualcosa che ci ha sempre dato gioia e ora è difficile e richiede grande pazienza e gentilezza soprattutto nei confronti di se stessi.
Ciao Cristina, confesso che scrivere questo post è stato uno sforzo immane pari solo alla fatica, allo sforzo ed alla resistenza messa in atto in questi tanti mesi.
Come in ogni momento difficile della propria esistenza è necessario tenere la barra dritta.
Grazie per il tuo contributo.
E’ splendido, coinvolgente, emozionante il tuo racconto, hai vinto una battaglia, ti sei lasciato andare, ti sei messo a nudo…Pur con esperienze molto diverse tanti di noi provano le stesse sensazioni, le ansie, il senso di smarrimento, l’amara constatazione che non si è più quelli di prima. Una strada senza ritorno, o dipende dalla nostra volontà il ricominciare, il ritrovare l’entusiasmo? Ti auguro di riuscirci, o forse è stata tutta una immaginazione poetica?
complimenti per tutto.
Grazie Adriana per aver letto il mio racconto. Non si tratta assolutamente di immaginazione ma di semplice realtà. Come in ogni post del mio blog che racconta una storia cerco sempre di metterci non solo quello che faccio e vedo ma anche il come mi sento, senza questa componente la comprensione dell’esperienza rimane parziale.