Ho messo piede per la prima volta in Aspromonte per studiarlo: ero tra i primi a cercar di dare una spiegazione all’origine delle sue vette, alla genesi delle rocce metamorfiche che si sono formate e trasformate dentro il profondo della crosta terrestre.
Sapevo che le catene montuose sono generate da grandi terremoti, dall’attivazione di faglie che si muovono in risposta agli sforzi tettonici, ma non mi ci ero ancora mai trovato immerso. Quel che mi ha da subito colpito e che è rimasto in vari modi dentro di me, è stata la sfida per raggiungere i luoghi più interni, oggetto di sete di conoscenza; è stata la sensazione di avventura e la struggente, pacifica e solitaria bellezza di tutti quei paesaggi.
E l’Aspromonte è un po’ lontano ma so che c’è, è li, non è una chimera. L’Aspromonte, a tratti, mi torna dentro più che altro riaffiora. E c’è di più: sento quelle Montagne.
Ho giocato tra i sassi, tra i solchi, tra le Valli profonde e spesso buie. Ho dovuto seguire i dislivelli, quelli naturali e naturalmente tracciati. Ho dovuto superare gli ostacoli, quelli delle piogge battenti, dei guadi e delle piccole frane. Ho dovuto scalare le difficili pareti della paura, dello smarrimento e dell’incerto. Ho messo piede sopra ogni cima, altura e punto di osservazione, per poter godere della vista d’insieme, come a voler abbracciare tutto dentro uno sguardo, mai soddisfatto da quell’ultimo scatto. Certo non pensavo ad altro la mattina, da sveglio: salire su, raggiungere la zona assegnata, quasi fossi una vedetta. Sapevo solo che avevo bisogno di viveri per affrontare la lunga giornata di lavoro di campo, senza incontrare alcuno.
Risalendo i ripidi tornanti, uno dopo l’altro, sentivo la polvere fine del suolo siliceo entrare nelle mie narici.
Allora iniziavo la salita, prendevo il mio mezzo ricoperto dalla salsedine del litorale di Bovalino, dove il caro amico Piero aveva trovato per me un alloggio, e mi dirigevo verso l’Alto di quei Monti, là dove era custodito il mio tesoro. Non dovevo attraversare del tutto l’abitato di San Luca, dopo le prime case mi lasciavo andare giù per la ripida discesa che mi portava fin dentro il Bonamico: l’ampia, piatta ed immensa Fiumara.
Quando riuscivo a guadarla, mi lasciavo tutto alle spalle, quel po’ di abitato che ancora poteva esistere; da qui in poi solo tracce sterrate, qualche mucca o famiglia di maiali selvatici e panorami, si, a mai finire. Risalendo i ripidi tornanti, uno dopo l’altro, sentivo la polvere fine del suolo siliceo entrare nelle mie narici. Salivo veloce nel tratto iniziale per non perdere tempo, per giungere nella zona di mio interesse, cercando di afferrare con la memoria visiva tutto ciò che di bello scorreva veloce attorno a me. E chissà a cosa pensavo. E mi fermavo solo davanti al primo affioramento per me interessante, mi affacciavo un po’ oltre la mulattiera per sbirciare tra gli alberi l’ampia bianca spianata della fiumara, già centinaia di metri più in fondo.
“Da qui, messere, si domina la valle…” La guardavo ogni mattina, ogni giorno: le cime, le incisioni, ogni spuntone, ogni pietra, come fosse roba mia; come se la notte, con il suo velo, avesse portato via qualcosa o come se dovesse esserci qualcosa di nuovo, non ancora visto, qualcosa da scoprire per conoscerla appieno, per sentirmi come unica cosa con quella forza apparentemente quieta che tuttavia dominava ogni cosa. La montagna era viva, parlava. La montagna si muoveva. La Montagna era alta e maestosa, allargava le sue braccia per lasciarsi scorticare, graffiare, accarezzare dalla pioggia, dalla neve e dal vento. Ogni piccola goccia che cadeva era smarrita, dispersa, finché la Montagna la guidava via lontano fino al giorno in cui, forse, sarebbe tornata in alto, lassù da dove tutto appare piccolo ed è piccolo a confronto.
Ma quanto affascinante e selvaggio, rigoglioso ed impenetrabile, è apparso a me il Massiccio dell’Aspromonte.
E quanto duro doveva apparire al viandante che volesse attraversarlo da parte a parte, o al pastore che vi saliva a cercar da vivere, e quanto intricato ed impenetrabile all’avventuriero che vi andasse a cercare tesori leggendari, nascosti da qualche brigante braccato.
Ma quanto affascinante e selvaggio, rigoglioso ed impenetrabile, è apparso a me il Massiccio dell’Aspromonte. Le vie che ho attraversato addentrandomi erano delle mulattiere, antiche carrarecce, a tatti piste sterrate che si modificano ancora adesso in sintonia con i severi eventi atmosferici.
Avevo un compito da svolgere, una meta da raggiungere, respiravo la fastidiosa polvere, sentendo solo qualche rumore, sempre più lontano, sempre più attutito, risuonare nella vallata.
Finché il suono del vento tra le foglie del bosco spegneva tutto.
Così l’Aspromonte è diventato una parte di me.