Una vecchia croce di legno sulla vetta mi indica che sono arrivato al punto più alto, la meta fisica. Ma insieme mi rammenta che ancora oltre vi è l’insondabile del mio essere a cui non voglio e non posso dare una risposta.
Sono salito su altre vette e sempre il mio essere uomo prende il respiro dalla percezione dell’infinito, finché arriva il momento di riprendere lo zaino, carico di momenti intensi vissuti tra le solitudini delle vette.
Solitudini che mi raccontano la mia vita e che mi spingeranno a salire su altre vette per sentirmi ancora e comunque vivo. Anche se a volte piango.
Come quella volta in cui il fiume era la musica che accompagnava la mia solitudine, cercando di ingannarla.
Sarà solo un momento, poi smette, mi ero detto. Ma qui non smette, piove da quando sono partito.
Sto camminando sotto la pioggia, battono forte le gocce sui miei vestiti, sulla terra. Gocce che riempiono ancora di più quel fiume e vanno via con esso. Tutto si muove, qui.
L’acqua del fiume. Si muovono le foglie degli alberi, prigioniere del vento che respira. Si muovono le pietre, le sento vibrare e scricchiolare sotto il peso delle mie scarpe.
Cammino vicino la sponda del fiume Salso, ogni tanto salto con cautela qualche masso, oggi si scivola per questa pioggia che ha reso tutto cosi insicuro, ovunque metto i piedi.
Devo raggiungere la vecchia casa della Pistacchiera che dall’alto domina il fiume, un casolare ormai divenuto un ammasso di pietre antiche, stanche del tempo e di sentirsi dimenticate dall’uomo.
Proverò a trovar riparo tra quei muri semi diroccati.
Soltanto loro pare non si muovano. Sono lì fermi chissà da quanti anni. Probabilmente oltre un secolo.
Sopra la casa il monte Sabucina (706 m) ha un aspetto tetro. Le nuvole lo coprono, il vento lo scuote. Di fronte vi è il Monte Capodarso (795 m) e lui ha invece un aspetto migliore, più largo e più aperto, seppure anch’esso è dentro questo scenario di pioggia e freddo.
Forse oggi era meglio che salissi sul Capodarso, se proprio volevo camminare in montagna sotto questi cieli di pioggia.
Così, a un certo punto, mi allontano dal fiume e comincio a risalire le facili pendici che più in alto diventano pareti verticali di roccia giallastra e rossa, friabile, cattiva amica di chi vi si vuole avventurare.
Quelle sono le rocce che formano il lungo crinale di Monte Sabucina.
Vi è un passaggio, tra le pareti di roccia, da arrampicare, come una ferita che penetra la verticalità di quelle pareti.
Salirò da lì, sperando non mi crolli alcun masso addosso, spostato dal battere della pioggia.