Così almeno è stato per me, appena girata l’ultima pagina del suo Il giro del miele. Era tre anni fa, in quelle settimane un altro libro che parlava di montagne stava sulla bocca di tutti, ma a me aveva lasciato del tutto indifferente, di questo, invece, con la lince in copertina, non riuscivo a liberarmene, mi aveva graffiato e una volta finito di leggere mi ero sentito orfano, sì, orfano di un intero mondo, il mondo della montagna disillusa, tradita, a volte disperata, ma altre volte di una tenerezza struggente che Sandro aveva costruito tra le pagine e che io vivevo, ma che mi scivolava via tra le dita, giorno dopo giorno, senza che riuscissi a trattenerlo e che invece quelle pagine per un attimo avevano afferrato per me.
Luchino è il vento di scirocco che lucida le foglie del faggio e accumula cartacce ai bordi della strada.
Ora per Einaudi, è arrivato il libro tanto atteso, I passi nel bosco, e ho capito che il mio senso di perdita avvertito da lettore e nella vita è lo stesso che accomuna la terra, le bestie, i protagonisti, i comprimari e le comparse dello scrivere di Sandro, tutti loro hanno perso qualcosa, tutti sono orbati di qualcuno; tutti sono orfani di Luchino, il protagonista che non appare, un Godot con il talento dell’incantatore di serpenti ma ignaro e indolente, anima segreta e inafferrabile di quel mondo sospeso tra una arcaicità perduta e un moderno che è già modernariato. Luchino è il vento di scirocco che lucida le foglie del faggio e accumula cartacce ai bordi della strada.
Leggendo Sandro Campani comprendo meglio le mie perdite, le mie assenze, gli odi e gli amori della mie montagne.
Chi, come me, vive in quelle terre che si alzano dalla pianura per diventare qualcosa che non è ancora o non è più montagna, ne ha piene le tasche di libri più o meno veritieri, più o meno consolanti, più o meno retorici, più o meno eroici, che vorrebbero parlare di noi, ma non è certo così per i libri di Sandro Campani (e, perdonate se aggiungo quelli del mio fratello d’anima Antonio G. Bortoluzzi e qualche altro in verità) quelli li aspetto con trepidazione, perché vi trovo la forza di una verità a me conosciuta, ma in qualche modo sempre nascosta, negata con ostinazione anche a me stesso che la vivo quotidianamente, Sandro Campani mi offre uno specchio nel quale riconoscermi anche se non voglio, anche se con tutte le mie forze non vorrei essere così, invece, parola a parola Sandro Campani mi dice che così sono io, che così siamo noi e me lo dice con la forza della letteratura, la più potente delle letterature, quella che riesce a fare della lingua di tutti un linguaggio alto e universale.
Alla fine i figli sono diventati i padri in un continuo ritorno che sembra non dover mai finire, in una immobilità ancestrale difesa con le unghie.
Sandro Campani ancora una volta fa parlare le persone, ma lo fa solo attraverso la mediazione dell’autore, elaborando così un linguaggio in gran parte nuovo che mette insieme l’esigenza del parlato con quella dello scritto.
C’è in I passi nel bosco il precario equilibrio di questi nostri tempi, il mondo perduto del novecento, con le scuole dei nostri paesi diventate depositi di vecchi armadi e banchi divorati dai tarli e c’è un altro mondo, quello che ha la pretesa o l’illusione di essere quello nuovo, il mondo fatto di piccoli sogni, che i sogni veri ormai non li fa più nessuno; in quale borgo dalle case vuote, infatti, qualcuno oggi non sogna un albergo diffuso come quello di Fausto e poi di Betti, in quale borgo sperduto, dalle Alpi agli Appennini, non c’è una Luisa che ha ereditato il bar dal padre e lo porta avanti così, senza il seppur minimo cambiamento, perché alla fine i figli sono diventati i padri in un continuo ritorno che sembra non dover mai finire, in una immobilità ancestrale difesa con le unghie.
E chi di noi non sa di Danielone, della sua angoscia e di quella di suo padre, anche se a volte, per un distorto comune senso del pudore, ci voltiamo dall’altra parte, noi sappiamo tutto di Danielone e di suo padre Francesco.
E tutto sappiamo di Antonello, ogni paese ha qualcuno che sembra avercela fatta a liberarsi, ma noi sappiamo, prima ancora che lui ce lo confessi difendendo dal taglio la vecchia quercia, della sua anima slabbrata, sappiamo che il suo dolore non è poi così differente da quello degli altri. Eppure, nonostante tutto questo continuo identificarsi, c’è nel romanzo qualcosa che oltrepassa il racconto ben conosciuto delle nostre piccole vite, qualcosa che può parlare a tutti che dice di questo nostro tempo arruffato nel quale fatichiamo a intravedere una strada o soltanto una traccia da seguire.
Non ci sono albe o tramonti d’incanto, sono le persone che ci vivono a fare le montagne e i paesi, non l’orizzonte e Sandro lo sa bene.
Assenza totale di retorica, nessun compiacimento, solo parola sopra parola come le pietre di un muro ben fatto dove ognuna ha il proprio posto e non potrebbe averne un altro per dire ciò che va detto. Non ci sono albe o tramonti d’incanto, solo qualche rara prospettiva, qualche pianta e gli odori tutti diversi delle foglie che avverte Luisa, sono le persone che ci vivono a fare le montagne e i paesi, non l’orizzonte e Sandro lo sa bene.
Vorrei scrivere ancora a lungo del libro di Sandro Campani che rileggendo mi accorgo di aver a volte chiamato solo Sandro e non come si usa in una recensione fatta come si deve con il cognome, Campani, ma pur non avendolo mai incontrato mi sembra di avere con lui sufficiente confidenza da potermelo permettere, è la magia dello scrivere, la magia di leggere in questi giorni strani, spero mi perdonerà.
Vorrei davvero essere capace di trasmettere la forza di questo romanzo di disincanto e verità, ma il mio lavoro non è quello del critico letterario e ho scritto troppo di me stesso come non si dovrebbe mai fare, ma un libro vero per me è quello che riesce, anche solo per un attimo a dirti chi sei, lascio ai critici l’analisi raffinata del testo, per me I passi nel bosco è un libro vero.