testo di Teddy Soppelsa
La Fratta del Moro è simbolo di convivenza della natura estrema con l’uomo. Lassù tutto è lontano dalla sottomissione umana, le tracce dell’uomo sono espressione di vita in comune, di coesistenza con la natura, non di superiorità. Nonostante le ripide e faticose valli da risalire, le tracce del boscaiolo sono ovunque. Le ceppaie di vecchissimi larici tagliati a mano con l’accetta, che vedo alla sommità della Fratta, hanno qualcosa d’incredibile.
Dopo quasi quattro ore di cammino arrivo alla sommità della Fratta. Ho seguito il percorso più diretto quello che dalla val Cordevole risale la val Ru da Molin, sotto ai dirupi boscosi della Spirlonga, del Coro, della Costa Bramosa e del Col de le Giasene. Le terrazze erbose a ridosso delle pareti, tra la cresta ovest e la parete sud del Burèl, segnano il limite oltre il quale è difficile spingersi. Andare oltre è un altro mondo. Una facile cengia mi guida verso l’impressionante abisso del Burèl. La parete è tagliata orizzontalmente, a circa metà altezza, da un’esile cengia, uno di quegli aerei passaggi di camosci diventati poi l’itinerario alpinistico del viàz dei camorz e camorzieri di Franco Miotto. Osservo l’abisso: 1200 metri di pareti più altri 300 di canaloni alla base.
L’estremo baluardo sull’abisso del Burèl è un vecchio pino nero.
I pini neri sono alberi forti, in grado di colonizzare rupi, conoidi e antiche frane. Vi è un detto che dice: “Il pino nero ama avere i piedi asciutti e la testa bagnata”. Infatti crescono vigorosi su questi ambienti primitivi, caratterizzati da suoli aridi drenanti e da forte umidità atmosferica. Ma più di ogni cosa amano la luce, quella che arriva presto al mattino e se ne va tardi la sera.
Un giorno, sul finire di un inverno tanto nevoso quanto mite, la valle riecheggiò di un tonfo greve. Non era il rumore della slavina che batteva i versanti meridionali della Val de Piero, quel tonfo era più leggero, simile al fruscio di rami mossi dal vento. Tutto si placò in pochi istanti e il silenzio si fece di nuovo assoluto. Nell’aria solo l’odore della geosmina: il profumo della terra smossa e umida. Il grande pino nero della Fratta del Moro era caduto. L’enorme peso della neve sui vecchi rami lo aveva strappato alla madre terra. In quell’inverno troppo mite le possenti radici non erano riuscite a trattenerlo.
Ora giace a terra, riverso su un fianco, con le braccia ancora robuste protese verso la Pala Alta. Lo vedo così, senza vita, nella luce del mattino. Le radici stringono, in un abbraccio secolare, pezzi di roccia madre e suolo fertile. Osservo la corteccia grigia a squame grosse e irregolari che lascia intravedere un corpo scarnificato, aggredito da insetti xilofagi: cerambicidi e tarli. Penso alle mani che lo hanno accarezzato o solo sfiorato, ai tanti occhi che lo hanno osservato e desiderato. Senza volerlo era un punto di riferimento, visibile da tutta la cerchia di cime che cingono la Val de Piero e la Val Ru da Molin. All’ombra della sua chioma, scura e compatta, hanno riposato camosci guardinghi e audaci cacciatori, i boscaioli al lavoro nella Fratta, alpinisti visionari, i vagabondi dei viàz che, come me, amano queste montagne grandiose di una bellezza primordiale.
La bellezza della natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo. Fa parte dell’eterna ricerca della verità che spinge l’uomo alla continua ricerca di se stesso e del suo creatore.
(Servizio Forestale degli Stati Uniti d’America)
Bella storia epilogo triste, forse un’altro albero stà crescendo, chi lo sà!