Attorcigliato in quella spaventosa consapevolezza di non essermi mai sentito come loro quanto stavolta, nudo e caldo, brandisco con antropologica tenerezza una freddezza illusoria. I loro abbai echeggianti sono la risposta sgarbata al tumulto interiore, un rigurgito d’angoscia. Il battito cardiaco circoscrive dune di aritmia da sentirmi invisibile, un contorsionismo intestinale mi avvinghia. La tensione si propaga nelle vene turgide per lo sforzo concettuale di accettare il reale, immanente e spaventoso. Uno di loro, il torvo, azzarda di nuovo ad azzannarmi, ma in maniera blanda, lo schivo senza abilità, solo contromisure. Mi accorgo di sanguinare dall’ascella o giù di lì. Il mio busto sembra dipinto d’un arte oscura. Dolore zero.
Lì dove il tempo mi attraversa, provo il disagio più grande di una piccola esistenza, ne realizzo l’importanza, l’essenza. Scruto senza oltraggio occhi incolori, respingenti, forse gli stessi che avevo io poco prima, la natura ci fa uguali e poi ci rende distinti. Io nudo, anche d’idee, dinanzi a loro, nudi, da sempre. Mi separa da loro l’incapacità di apprezzarmi in queste condizioni, via lo spirito via la vita. Eludo ancora un azzannamento, a stento faccio passi, sconnessi. Non ho più niente da me. La morte turpe mi avvolge e circonda con la suggestione di una vita apparente. Forse niente è più pauroso di questo, ho vissuto per morire o morirò per vivere veramente. La paura è una chimera.
Seppur con rassegnazione, m’istruisco sull’oblio della coscienza. Al diavolo il principio dell’immortalità. Sono fermo e libero, in attesa dell’assalto definitivo, nessuno intorno a me, solo la fine. C’è vento, ma non mi porta con sé. Occhi chiusi, statuario nello spazio. Serro a più non posso palpebre e pugni. Il boato, ruggente, poi un silenzio angelico…
La sabbia era come l’avevo immaginata. Il mare dondola la quiescenza dei sensi. Schiudo incredulo due fessure con le palpebre, mezzaluna d’iride accecato dal bagliore, mi meraviglio di me stesso. Di là dalla montagna spaccata, sparute staccionate divelte fiancheggiano un casolare vetusto. Il branco corre agitato sciamamante dietro un grosso trattore trainante un’arrugginita ruspa scavatrice. Un uomo solo al comando. Tormenti frettolosi, nel zefiro tiepido. Cosa c’è al di là delle ore perse?
Irretito a terra, quasi inchiodato, guardo le nuvole pulite, candide, incellofanate. Penso che qualcuno mi aspetterà, da qualche parte. Nella morbida folgore albeggiante, Il sole accarezza ancora le fronde e le vesti. Il cielo è plumbeo, sa di conciliazione. Sono nudo e senza pietà, sangue rappreso un mosaico sul corpo. Oggi ho vissuto due volte.