Reportage

Lagorai Tracks6000

Bici, montagna, fatica e avventura, tutto in un'unica esperienza nello splendido scenario dei Lagorai. Il racconto di Eric Scaggiante, finischer alla 3a edizione della Tracks6000.

testo di Eric Scaggiante, foto tracks6000 e Stefano Bastiani

12/08/2019
5 min
Pochi fronzoli e poco romanticismo se si parla della Tracks6000. Tende al trail, non è gravel, sono 6500 metri di dislivello stipati in 145 km e c'è posto solo per 100 partecipanti.

E’ un giro in montagna che sale forte e scende forte, è brutale ma bello, spigoloso e sfacciato, pensato da gente che ama la montagna e ci vive, che i giri li pensa non per andare incontro a fatica gratuita, ma per godere di posti il cui biglietto d’ingresso si paga con il sudore, con graffi e imprecazioni, soprattutto se si decide di andarci in bici.
Non vedevo l’ora di provare questi sentieri, perché chi ha pensato ad un giro simile non ha nulla da guadagnarci e tanto meno da perderci, poco importa se riceverà qualche lamentela, alla fine lo fa solo perché vuole condividere angoli nascosti di luoghi spettacolari, con persone che possono apprezzarne il valore e se alla fine ci saranno complimenti allora saranno graditi, ma di certo non attesi.

La sera prima della partenza
Ho scelto di arrivare la sera prima della partenza, salendo da Strigno fino al Rifugio Carlettini dove inizia e finisce il giro, così da capire appieno con che evento avrò a che fare. La cena, a quanto pare, è un rito della Tracks6000. Ascolto i discorsi che nascono tra un boccone e l’altro e capisco come nove presenti su dieci ritornano qui ogni anno attirati da un evento che garantisce sempre nuove fatiche e nuovi panorami. A fine cena Ildebrando – è lui l’artefice della Tracks6000 assieme alla sua compagna Michela – prende la parola per un breve briefing e con altimetria alla mano ci anticipa i tratti di portage obbligato. Ci spiega com’è stato difficile tracciare il percorso dopo il disastro dell’ottobre scorso: gli alberi caduti come stuzzicadenti avevano sbarrato sentieri e stravolto la morfologia delle valli qui vicino e non solo. Per questo l’edizione 2019 sarà dedicata all’albero.

Mentre ascolto Ildebrando, la cosa che più mi colpisce è il loro desiderio di ritornare alle origini della Tracks6000, ovvero ad un giro che si ama o si odia, un giro per mountain bike per tutti i gusti di questa disciplina, tracciato senza badare troppo alla fatica che c’è da fare, ma dove ogni singolo chilometro è pensato per lasciare qualcosa a chi vi partecipa. E infine l’impegno dei due giovani organizzatori di rimanere in coda al gruppo per assicurarsi che non rimanga nulla del nostro passaggio.

La partenza
Sabato 20 luglio alle 6 e 30 siamo di nuovo nella sala che ci ha accolto ieri sera, facciamo colazione con croissant, yogurt artigianale, marmellate caserecce, caffè e tè. La partenza è fissata alle 7 e 30, senza deroghe. I primi 10 chilometri sono di salita dolce: sterrato battuto e largo, esattamente quello che serve per digerire la colazione. Si arrivava fino a 2016 metri, in cima ad un passo disseminato di cupa roccia magmatica, a sprazzi coperta da licheni di colore solfureo che contrasta con il verde vivace dei prati. Sono sul Passo Cinque Croci il cui scenario primordiale è appena sfioratro dai segni dell’uomo che rimangono discreti e quasi invisibili. Gli alberi spariscono e spuntano i sassi tra i quali si snoda il sentiero stretto e impedalabile, proprio come lo aveva descritto Ildebrando.

Spigoli sporgenti, ghiaino su costoni rocciosi bagnati, minacciano caviglie e forcellini del cambio. Prima in salita e poi in discesa il portage non molla mai, ma il paesaggio continua ad incantarmi. Tra un passo e l’altro mi lascio superare da chi è più agile di me, qualcuno prova a stare in sella ma lo vedo cadere malamente. Il dolce epilogo dell’impervio portage è l’arrivo a Forcella Magna da cui si apre una vallata sconfinata e brulla, non ho mai visto nulla di simile, vedo il sentiero snodarsi e sparire in lontananza in mezzo ai boschi. Finalmente dopo un’ora passata a spingere con le braccia e con le gambe, si ritorna in sella e mi fiondo a tutta velocità per 700 metri di dislivello. Si va giù a Malga Sorgazza, si continuava con qualche altro chilometro in discesa e poi su verso il Passo Broccon. La salita fino al Passo è gradevole, ma lo è ancor di più la vista di Ildebrando e Michela che attendono i partecipanti con un ristoro ben assortito. Prendo una banana e bevo mezzo litro d’acqua, la strada è ancora molta lunga e vorrei arrivare prima della mezza notte.

La salita continua, il nero del bitume si fa calcareo e bianco sino in cima al Monte Agaro. «Ci sarà un bel single track a scendere» aveva preannunciato Ildebrando e ovviamente aveva ragione. Dalla cima prendo un single track piuttosto insidioso, coperto d’erba a nascondere massi e radici sul fondo. Guardo il gps e vedo una linea scarabocchiata sullo schermo, stimo una ventina di tornanti stretti stretti. Il paesaggio mozzafiato non mi è amico e basta distrarsi mezzo secondo per rovinare a terra. Culo tutto indietro, braccia sotto piega, due dita per ogni leva del freno, occhi fissi a scovare le insidie celate dall’erba, scendo tornante dopo tornante sino ad entrare nel sottobosco torboso e morbido dove si può correre con meno timore di finire a testa in giù nel dirupo.

Il miraggio delle Coca Cole
Il sole ormai è alto nel cielo e comincia a battere forte, scalda le braccia e la testa e l’acqua nella borraccia è una brodaglia. Ma Ildebrando e Michela hanno pensato anche a questo, hanno disegnato il percorso in modo che passi davanti alle fontanelle dei vari paesi, una piccola cosa ma che dimostra come il tracciato è stato testato fin nei minimi dettagli. A Castello Tesino, davanti ad una di queste fontanelle, incontro Alberto e Andrea, ci dissetiamo prima di affrontare la terza salita verso la cima del Monte Lefre (con Andrea ci rivedremo fra poche settimane in Kyrgyzstan alla SilkRoadMountainRace).
Lo scollinamento del Monte Lefre mostra i segni della tempesta di ottobre: alberi spezzati come corpi morti in battaglia sono ammatassati ovunque, la strada è disseminata di macchie rossastre, pezzi di corteccia abbandonati dopo i lavori di sgombero del legname.

Dopo la terza salita della giornata arriva la discesa che negli ultimi chilometri, dove la pendenza aumenta, si trasforma in un sentiero da enduro piuttosto tecnico. Decido di scendere dalla bici e di correre a piedi giù per il sentiero, con le mani aggrappate ai comandi. La discesa si fa faticosa quanto una salita, forse anche di più, penso che se avessi camminato avrei speso solo più energie con maggiore probabilità di scivolare sulle rocce o nei solchi provocati dell’erosione.
Il caldo e il tratto di trail a piedi fanno gocciolare il sudore dalla visiera del berretto, ma so che fra poco la situazione migliorerà.
Al termine della discesa seguo il corso del torrente Brenta, verso Borgo Valsugana che segna la metà del giro e l’inizio di una salita temibile. Prima della grande fatica sono colto da un miraggio: vicino ad una fontanella vedo un uomo anziano e una vespa bianca e la vasca della fontana è piena zeppa di barattoli di Coca Cola. Non è un miraggio, è il padre di Ildebrando che ci aspetta nell’ora più calda della giornata per darci la carica prima della prossima scalata.

La salita alla località Cinque Valli è una di quelle scalate che per essere affrontate richiedono solo due cose: resilienza e calma. A darmi il benvenuto incontro tratti con una pendenza del 20%, poi calano al 15% e così via fino ad un breve ma prezioso scollinamento su sterrato da cui si scorge il rifugio tra gli alberi. Lungo la salita trovo alcuni compagni di viaggio fermi a prendere fiato a bordo strada. Anch’io, dopo il tratto più duro, sono costretto a fermarmi un paio di minuti. Con la vista del rifugio è facile illudersi che sia finita lì, ma la Track6000 non bada ai crampi di nessuno e se c’è da salire per raggiungere altri luoghi mozzafiato ci va e basta. Proprio sopra il rifugio la traccia riporta nel bosco e il sentiero si trasformava in una larga e dritta e pressoché verticale distesa di sassi, lunga qualche centinaio di metri. Non ho mai visto uno strappo simile. Calcolo che manchino 500 metri alla cima e circa 2 chilometri per lo scollinamento, quindi da qui in poi non può esserci nulla di troppo accessibile in bici. La mia supposizione si rivela corretta e dopo la bestiale salita, il percorso diventa angusto, si fa largo tra piante, massi e un torrentello. Ad ogni masso lancio energicamente la bici zavorrata, quindi mi tiro su e ripet0 l’operazione sempre più a rilento e faticosamente. Fuori dal bosco sbuco su un prato ripido e mi sembra di non avvicinarmi mai alla Malga Masi mentre sullo sfondo vedo la salita verso la sella de La Bassa.

Strudel, radler e latte macchiato
Mollo la bici davanti l’ingresso della malga e entro. Ho lo sguardo perso, sul volto una patina lucida di sudore e polvere raccontano la mia fatica. Non mi sto risparmiando, mi sento in giornata buona per spingere quanto più forte posso. Sono le quattro o le cinque del pomeriggio, alcuni tavoli sono imbanditi, una famiglia di tedeschi è attorno ad un tavolo difronte al bancone, alcuni rumori lasciano intendere che l’oste è in cucina a preparare qualcosa per loro. Appena ritorna in sala ordino subito il mio pasto da fatiche montane in bici: strudel, radler e latte macchiato. «Arriva subito» mi dice. Mi siedo accanto ai tedeschi, verifico che non c’è collegamento internetm meglio così. Il silenzio nella stanza è rotto solo dal bisbigliare dei miei vicini che stanno chiaramente confabulando su di me. Ma come biasimarli? Puzzo pure di sudore!
Seduto sulla sedia, con ancora indosso il casco, chiudo gli occhi mentre mi reggo il capo con il dito indice puntato sotto il naso ed il gomito incuneato sul bacino, così da sfruttare al meglio l’attesa della mia merenda, per far riposare un po’ la mente e gli occhi. I tedeschi borbottano ancora. Mentre mangio scambio due parole con l’oste sulla Tracks6000, mi dice che alcuni hanno prenotato le stanze per passare la notte e mi chiede se ho intenzione di fermarmi da qualche parte. Rispondo che vorrei arrivare al Rifugio Carlettini entro la mezzanotte.

Dopo la merenda riparto fresco e rinvigorito, pronto a tirare dritto fino alla fine. Superata la sella de La Bassa affronto diversi sali e scendi tra strade e sentieri, supero numerose malghe più o meno zeppe di turisti. Durante un tratto in salita, su una strada forestale piuttosto sconnessa, vengo superato da una vecchia cinquecento rossa con quattro persone a bordo e il motore ronzante ad implorare pietà. Da Casa Pinello in giù è tutta discesa fino a Scurelle, una di quelle discese che mi piacciono tanto, si toccano facilmente velocità molto alte, i sassi volano dappertutto ed io rimbalzo da una parte e l’altra della strada per prendere la corda delle esse, poi stacco al tornante e di nuovo giù a pacco.

Uno stato di pseudo trans dopo dodici ore in sella
Ecco Scurelle! E’ l’ultima salita impegnativa verso Prima Luna, altri 1300 metri. Intanto il sole sta calando, gli abitanti della valle rincasano e arriva il silenzio che mi accompagnerà fino alla fine. Le pedalate si susseguono silenziose, penso poco e respiravo tanto, il corpo è sintonizzato solo su ciò che deve fare e che oramai sta facendo dal mattino: pedalare, far girare le gambe, seguire una traccia e godere di quello che mi sta attorno. Con la notte compaiono anche i primi cenni di stanchezza mentale, mentre gli occhi si lasciano ipnotizzare dal fascio bianco del faretto, le gambe cominciano a girare più piano seguendo l’andazzo della mente, ma il fisico ne ha ancora, sono allenato, nutrito e ancora sufficientemente riposato.
Mi bastano queste certezze per ingannare la mente, o meglio dico alla mente di non lasciarsi ingannare dal buio della notte. Ricomincio a spingere forte, andando su a tutta, ritmando il fiato e guardando dritto davanti a me, l’unica cosa da fare è muovere le gambe senza farle rallentare, meglio buttare su due denti dietro e andare più agili, è uno stato di pseudo trans che raggiungo dopo le dodici ore in sella.

Mi sento un drago dentro, mancano un paio di scollinamenti e poi solo discesa, che vuole dire ancora una mezza dozzina di chilometri di salita nel bosco e più forte riuscissi ad andare prima me li leverei dalle scatole. Il paesaggio stimola la curiosità, ma c’è ben poco da vedere, è tutto nero, tra gli alberi ogni tanto intravedo la valle stretta ed il cielo, ma il fondo della strada richiede attenzione per decidere dove mettere le ruote. In testa ho la fotografia del profilo altimetrico, so che appena la salita si allenta sarò vicino all’ultimo scollinamento.
Ad un tratto incontro uno dei partecipanti mentre spinge la bici. Ha un guasto e gli chiedo se ha bisogno di qualcosa, mi dice di no, così lo incoraggio a continuare e riprendo a pedalare. Esco dal bosco e mi addentro in un’ampia vallata, a monte vedo una abitazione con una lucina che brilla, a valle è tutto buio e davanti a me solo abeti schierati. Realizzo che sono su quella specie di panettone che si vede nell’altimetria, quindi manca poco a scollinare.
Scendere di notte nel bosco a velocità sostenuta è incredibile, anche se la discesa al buio nel bosco non è la situazione che prediligo, ma questa notte così bella e silenziosa mi regala un sorriso che mi porto fino al Rifugio Carlettini.

Lì nel rifugio trovo Ildebrando, il mio amico Samuele e altri tre compagni che sono arrivati poco prima di me. La sensazione è sempre bellissima quando riesco a portare a termine una pedalata meglio di quanto avessi previsto. Attorno al solito tavolo mangiamo pasta al ragù e beviamo birra tra amici vecchi e nuovi. Ildebrando e Michela sono stati magnifici padroni di casa e insuperabili tracciatori, la cura e la passione verso le loro montagne è impressa in ogni loro gesto. Il loro entusiasmo contagia tutti, compresi i cari padroni del Rifugio Carlettini, sempre disponibili e felici di accogliere ogni anno la Tracks6000. Ritorneremo tutti statene certi.

Per saperne di più sulla Tracks6000:
Michela Dalcastagnè,  cell. 349 7522012
Ildebrando Lazzarotto, cell. 339 8075925
www.tracks6000.com

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Eric Scaggiante

Eric Scaggiante

“Così giovane” è la frase che mi sento ripetere da quando è cominciata la mia dipendenza dalla bicicletta. Ho cominciato a gironzolare da solo quando avevo appena nove o dieci anni, alla scoperta dei territori del mio comune e poi di quelli limitrofi, in sella al mio “destriero”. Ho voluto spingermi sempre più in là, in cerca di ciò che pochi vedono e vivere ciò che pochi cercano. Mi piace perdermi tra le montagne con ogni tipo di clima, pedalando spesso da solo, ma senza disdegnare la compagnia di impavidi e randagi. Più pedalo e più mi pare che il mondo si faccia sempre più a portata di gambe. E’ una sensazione di assoluta libertà, andare dove si vuole arrivare. I luoghi da visitare sono ancora tanti, perciò non mi resta che pedalare.


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