La strana storia di Caterina
e del suo paese
Mi piacciono i cimiteri.
Mi piacciono proprio tanto i cimiteri, sono la rubrica del luogo dove vivi. Dove arrivi.
I nomi prima. Tedeschi o slavi, poi, sulla stessa stele, incolonnati, improvvisamente italiani o italiani prima, poi, improvvisamente slavi.
Tedeschi, quindi italiani e ancora tedeschi.
Strati di fango, di lacrime, di sangue, strati di grande storia e piccole storie di ognuno dimenticate, questo sono i nomi sulle lapidi del mio paese di confine.
Le iscrizioni dopo.
Bella schiatta italiana resistette a lusinghe e minacce per salvare quassù la lingua di Dante e il nome Eterno di Roma.
Für Gott und den Kaiser.
Eine alleinerziehende Mutter nur eine Heimat.
Al cimitero di Luserna, il mio paese, le conosco tutte le iscrizioni, ma alla fine finisco sempre qui, accanto alla stessa tomba, modesta, senza frasi altisonanti, sulla pietra solo un nome, Caterina, una minuscola foto e due numeri; 1899 – 1978.
Caterina il fenomeno. Caterina l’anormale.
Caterina.
Non puoi pensarti normale Caterina; come tutte, come tutti. No, non puoi pensarti normale, se nel paese dove sei nata ci sono due scuole. La tua, intitolata all’imperatrice saggia Maria Theresia von Habsburg Lothringen, quella degli altri, invece, al sommo poeta italiano Dante Alighieri e sulla piazza si fronteggiano due osterie, le sole, una porta il nome dell’eroe tirolese Andreas Hofer, quella di fronte inneggia al vessillo italiano: Al Tricolore. In entrambe si gioca a watten e tresette a perdere.
No, non puoi pensarti normale, come tutte, come tutti, se in quella lingua antica che bevi insieme al latte colostro, i nomi delle donne si declinano al maschile, perché non ci sono più uomini al paese, partiti contrari al viaggio delle rondini. E a ragione, nei campi, le braccia delle donne valgono uguale.
«Che nome le diamo?»
«Caterina, come la nonna.»
Disse così tua madre al prete che ti battezzò, ma lei, tua madre, Caterina, non ti chiamò mai, neppure il giorno del tuo primo compleanno, sempre e solo: dar Katarì. Il Katarì.
Non puoi pensarti normale Caterina, se quelli dall’altra parte della strada, dalla parte tedesca, chiamano le tue prime parole Schlamm Brot; pane di fango. Come puoi allora pensarti normale, se quel pane è il solo pane che sai mangiare?
Dalla parte italiana della strada, invece, mormorano a bassa voce: slapeteri, il tuo dire alle loro orecchie è come il lappare dei cani, non puoi pensarti normale, se quello è l’unico modo che hai per dire.
Schlamm Brot, slapetero; chiamano le tue parole antiche di oltre mille anni, suoni che hanno il timbro di celti, di goti, di cimbri, di latini, una lingua di Babele, feconda per grazia di Dei benigni, una mesticanza di fiati e voci di cui si sono perse le origini, non la memoria. La memoria adesso ha fatto un nuovo nido, tra la tua lingua e il palato e si conserva, come in un’anfora affondata con la sua galera, si conserva il vino, sigillato per sempre dal mare.
Schlamm Brot, slapetero e dentro di te, qualcosa di aspro si aggruma in un odio mortale.
Alla scuola Dante Alighieri agli scolari danno un paio di scarpe ciascuno.
Alla scuola Maria Theresia von Habsburg agli scolari danno il pranzo e un cappello.
Alla scuola Dante Alighieri agli scolari danno un paio di scarpe ciascuno e un paio di pantaloni e l’abbecedario.
Alla scuola Maria Theresia von Habsburg agli scolari danno il pranzo e un cappello, la merenda e un ritratto dell’Imperatore.
E giù sassate, cattive, a far male, da entrambi i lati della strada.
Un azzuffarsi di cuccioli per preservare gli uomini integri per ben altra guerra.
È la maledizione di chi nasce sui displuvi delle montagne, dove le acque si dividono e scendono verso mari diversi e nemici. Vincere grumi di odio, il compito improbo che Dio ha affidato a chi nasce ai bordi degli imperi. Pochi vi sono riusciti, Alexander Langer uno dei pochi.
Eppure, Caterina, la lingua di tua madre, la tua lingua Madre, quel pane disprezzato, ti sarà di conforto sino all’ultimo sguardo, quando al prete risponderai in Cimbro:
«Un asó az sai. Un Vorgèllz Gott.» E Così sia. E che Dio ve ne renda merito. Lui, il prete, venuto dall’altra parte del mondo, perché adesso le strade sono diventate mille e mille, non comprenderà nulla e penserà al barbugliare di una vecchia moribonda. Avrai allora la forza per un estremo sorriso indulgente, raccolto dal bambino dagli occhi troppo adulti, amico della tua tarda età.
E se a vent’anni, Caterina, i tuoi seni erano due albicocche appuntite e le tue braccia quelle di un fabbro ferraio, allora il soprannome era già pronto da tempo, nessuno lo doveva inventare, nessuno te lo doveva dire, tu già lo conoscevi: Katarì, dar månn; Katarì, l’uomo.
Katarì dar månn, per tutta la vita, l’uomo; e allora che uomo sia, anche se i tuoi pensieri sono di donna, i tuoi desideri sono di donna, i tuoi occhi sono di donna, le tue lacrime sono di donna, il tuo mestruo è di donna, il tuo corpo è di donna seppure non voglia saperne a diventare donna.
Katarì, nato femmina per crescere maschio all’alba di un secolo breve e feroce, nato nel mezzo di un inverno che inverno non era, dove nuovi germogli nascevano al posto delle foglie cadute. Kartarì, ultima suddita fedele del Sacrum Romanum Imperium, Heiliges Römisches Reich, fedele sino al sepolcro al suo venerando imperatore, Franz Joseph von Habsburg-Lothringen al cui erede, Karl, imputavi il gran rifiuto:
«Nessun imbianchino di Branau avrebbe mai salito le scale del Reichstag se i miei imperatori fossero rimasti al loro posto.»
Ti aveva abbracciato Karl von Habsburg quando sei arrivata al campo di prima accoglienza vestita di stracci, in fuga dalla Guerra Grande, disperata e sospesa come ogni profugo, di ogni tempo. Chissà perché aveva scelto proprio te il medievale Imperatore santo e quando ti fece scivolare nelle mani quella moneta d’argento che hai conservato con cura in un minuscolo borsellino di pelle nera gli dicesti in buon tedesco:
«Ich will keine Almosen, mein Meister es einfach akzeptieren, weil es ein Bildnis meines Kaiser Franz Joseph ist.» Non voglio carità, mio Signore, la accetto solo perché vi è l’effige del mio imperatore Franz Joseph, così dicesti a quell’uomo magro con i baffetti arruffati, un’acqua poco profonda i suoi occhi celestini.
Hai visto passare la tempesta Caterina e sei tornata al tuo paese distrutto e in faccia al mondo intero hai urlato la tua felicità. La felicità di una rondine che non si preoccupa del nido caduto, ma gioisce del luogo ritrovato.
Felicità di donna e uomo, di tedesca e italiana. Felicità senza nome e senza sesso, senza bandiera, senza Dio. Felicità senza aggettivi.
E prima che la seconda tempesta arrivasse, ti chiesero persino di scegliere, lo chiesero anche a te che non hai mai potuto scegliere nulla, nemmeno a quale genere appartenere. Vivere, la tua sola opzione.
Lusinghe e minacce per prendere campo. Italiano o tedesco; tertium non datur. Maschio o femmina. Optare, già, questo ti chiesero. Nella tua lingua antica non esisteva una parola per dirlo, ti adattasti, vi adattaste: optàrn il neologismo coniato per l’occasione.
«Che solenne cagata è mai questa? Lo sanno tutti che noi non siamo tedeschi, ma neanche italiani veh! Siamo Lusérnar sudditi, orfani, dell’Impero multilingue e multietnico degli Habsburg Lothringen e basta!»
E si divisero le famiglie, padri e figli maschi di cittadinanza tedesca, invagonati (il reich millenario prendeva confidenza con le ferrovie) verso terre dove scorrono fiumi di latte e miele, madri e figlie femmine, italiana. E Katarì nel guado.
Al bambino dagli occhi adulti raccontasti, con palese compiacimento, di quando il tuo Imperatore aveva appoggiato la mano sulla spalla del brillante medico, tuo compagno di giochi infantili, Begia si chiamava, durante un solenne ricevimento all’Università di Vienna.
«Fatemi conoscere il medico italiano che tanto onore si è fatto nella nostra Università.»
Un’investitura imperiale, dicevi, e sorridevi mentre riferivi la risposta del tuo vecchio amico.
«Mein Kaiser ich bin nicht Italienisch oder sogar Tiroler. Ich bin einfach ein Lusérnar», mio imperatore io non sono un italiano e neppure tirolese. Io sono semplicemente lusérnar. Ti beavi di quelle parole, ma ti crollò ugualmente il mondo addosso quando scopristi che nel fumo che si stava alzando dal fondovalle, quel giorno salivano le ceneri di donne e bambini e di uomini, ché per la morte non fa nessuna differenza; Pedescala si chiamava il paese dato alle fiamme e le voci criminali avevano il tuo stesso accento germanico, la lingua del tuo amato Novalis era il berciare inumano che si racconta in quel piccolo libro che hai custodito tra gli strofinacci della cucina e che si chiede: Se questo è un uomo.
Katarì sono tornato sulla tua tomba anche oggi, come si torna alla Kapuzinergruft, alla Cripta dei Cappuccini, dove sono sepolti gli Imperatori in sarcofagi di pietra, la tua foto sulla lapide non dice il vero e allora sino a che i miei occhi, allora adulti, oggi ritornati bambini, me lo permetteranno scriverò la tua storia e quando scrivere non mi sarà più permesso la canterò a voce alta come gli aedi antichi; la storia di Katarì nata donna all’alba di un secolo breve e feroce e vissuta da persona libera.
“Non si cade mai due volte nello stesso abisso. Ma si cade nello stesso modo, con un misto di ridicolo e di spavento”. L’ordine del giorno, Éric Vuillard.