Vittorio Giacomin
Scrivo, qualche volta; cammino, quando posso; immagino, sempre.
Il mio blog | Il mio blog è altitudini.
Link al blog
testo e foto di Vittorio Giacomin
Avevo già incontrato quel vento, quella straordinaria sensazione di libertà che solo il camminare in cresta ti può dare.
Molti anni fa, sul Pavione, in una splendida e limpida mattina il vento mi aveva accompagnato alla vetta parlando al mio spirito. Fu piacevole e inaspettato ritrovarlo quel giorno, sembrava un vecchio amico che tornava a parlarti dopo tanto tempo, un amico che ti vuole raccontare molte cose; mi ricordava le bandiere della preghiera che avevo visto libere, colorate e consumate, sventolare nella valle del Khumbu in Nepal; e così salendo verso il Ciste, anche questa volta sulla cresta, il dialogo diventava fitto, intenso, forte, a volte scontroso, e più ci si avvicinava alla cima più il dialogo diventava serrato, quasi incomprensibile.
Le folate non davano tregua e io non capivo perché, distratto e appagato dalla bellezza di un giorno limpido e di un paesaggio mozzafiato.
Camminavo nel vento e il vento spazzava le croste del mio spirito; si sale per salvarsi, per ritrovarsi, noi poveri uomini moderni, e in quella immensità, in quella maestosità, nulla mi sembrava fuori posto quel giorno; vivevo quei momenti come un regalo della vita e mi sentivo felice e fortunato di tanta fortuna. Era il 28 ottobre 2018.
Ma non capivo cosa quel vento volesse dirmi
Anche al rientro da quella gita commentai con me stesso e con Paola questa giornata straordinaria, rara, che avevamo vissuto.
Ma ero sordo quel giorno, “ignorante”, e non capivo cosa quel vento volesse dirmi. Salivo incurante di quel parlare, ascoltavo distrattamente, superficialmente, e egoisticamente vivevo di questa fugace felicità terrena alla quale gli uomini si aggrappano rinunciando a ricercare il vero senso delle cose.
Non capivo che di fronte a me avevo un’avanguardia di un esercito terribile che di lì a poche ore avrebbe trasformato la mia transitoria ed effimera felicità in mesta desolazione, in muta malinconia di fronte ad un infinito non domabile, in altre parole di fronte a qualcosa che avrebbe riportato tutti con i piedi per terra.
“Ieri tutto era più bello
la musica tra gli alberi
il vento nei miei capelli
e nelle tue mani tese
il sole”.
Le consolatorie parole di Agota Kristof mi offrirono una pausa, crearono un vuoto, colmarono un po’ la tristezza, ma ancora non capivo. Ero convinto che di fronte all’ecatombe che i media illustravano in quella prima settimana di novembre, che difficilmente si scorderà, non ci fossero più parole, che le emozioni si fossero congelate, che la montagna così ferita si richiudesse in se stessa, che i boschi diventassero muti. Avevo bisogno di verificare se quel dialogo spavaldo che avevo avuto la domenica precedente si fosse per sempre interrotto e così eccomi di nuovo a salir sentieri, ora interrotti, per ascoltare, per vedere, per cercare di capire, per sentire se il bosco scomparso fosse davvero diventato muto come le gelide foto dei droni facevano presagire.
Ostinatamente generoso il bosco donava il suo profumo
Quel giorno non c’era vento, si camminava su un campo di battaglia, ancora con i “cadaveri” a terra, in un “apparente” silenzio rotto solo dai nostri passi.
Fu in quell’andare che mi resi conto di non saper vedere e ascoltare realmente il mondo, il “velo di maya” si stava squarciando, il bosco, pur a brandelli, mi stava parlando, usando un artifizio formidabile. Il suo profumo.
Questo grimaldello si trasformò in uno strumento strepitoso che aprì le porte al mio spirito. Ascoltai con attenzione, la distrazione e la superficialità fecero spazio ad “una seconda vista” che mi permise di entrare in sintonia con il bosco.
Capii che il bosco, pur lacerato, dopo aver urlato per ore, dopo aver strenuamente resistito ed essere crollato con grida di dolore strazianti, non voleva morire, o per meglio dire, affrontava la morte con dignità.
Si potrebbe dire che in quel momento, con quel profumo soave, il bosco stesse vivendo una sorta di vita oltre la vita; ostinatamente generoso il bosco donava il suo profumo per farci comprendere che, se anche la morte arriva, porta con sé il suo profumo, porta un messaggio di eternità, di divenire, di trasformazione, di qualcosa che supera la contingenza, di qualcosa che pur nella devastazione e nello strazio è resiliente, trapassa dolcemente.
Il bosco, “morendo”, offre una grande lezione
Il bosco morente si porta nel cuore il desiderio della vita e la morte quindi non arriva perché il profumo tiene viva la vita, fa in modo che il trapasso avvenga con gentilezza, crea lo spazio per il pensiero, accompagna in un terreno sconosciuto, mostra il lato mistico della natura tanto caro ai romantici, contrappone bello e sublime.
All’uomo moderno, così sicuro della propria scienza, sordo, cieco, cinico, arrogante, sbruffone, smarrito, il bosco, “morendo”, offre una grande lezione, insegna come il nostro passaggio terreno sia transitorio, insegna che tutto muta, che nulla è eterno, che il permanere è una nostra illusione perché non sappiamo toglierci il “velo di maya”, insegna che tutto è in divenire e che la nostra scienza non ci salverà; che accettare questa condizione di eterno cambiamento significa morire con dignità offrendo al mondo un insegnamento, anche nell’atto estremo.