Cultura scientifica e libertà sono quindi essi stessi elementi fondanti dell’alpinismo inteso come conoscenza della Natura e dell’Uomo.
Basti pensare alle motivazioni che spinsero il cercatore di cristalli Jaques Balmat e il medico Michel Gabriel Paccard nell’agosto del 1786 ad avventurarsi sulla cima del Monte Bianco, voglia di avventura, desiderio di ricerca scientifica, coscienza di muoversi su terreni inospitali e con pericoli oggettivi.
Risposte responsabili da chi partica attività in natura.
Oggi ci troviamo di fronte non solo ad uno sconvolgimento globale, ma anche alla più imponente sospensione di libertà fondamentali dell’uomo dal dopoguerra a oggi. Libertà che è bene ricordare sono alla base del nostro modello civile e che attualmente sono pregiudicate da uno stato emergenziale di natura eccezionale. Che ne può giustificare la limitazione – purché temporanea – non certo l’abuso o la procrastinazione indeterminata.
Di fronte alla chiamata ad un senso di responsabilità collettivo tutti noi “alpinisti” (usiamo un termine generico: ci rivolgiamo a tutti coloro che praticano le attività “nella natura”) – che pure facciamo di queste libertà l’uso più ampio, libertà che oseremmo dire irrinunciabili per la realizzazione di noi stessi, ben al di là dell’aspetto meramente sportivo – abbiamo risposto con senso etico e di adeguamento.
La sospensione delle attività, il rispetto delle norme e questa nuova per quanto sgradevole “forma di vita” sono state e sono il codice comportamentale quotidiano. Non è un’impresa eroica: è solo senso civico. Non ci soffermiamo nemmeno su casi (isolati e numericamente irrilevanti) il cui clamore è dato più dal deprecabile scandalismo giornalistico che non dalla (già deprecabile di per sé) inosservanza della legge. Di fatto tutti coloro che amano la propria passione hanno rispettato le prescrizioni, fossero essi dilettanti o professionisti (che pure da ciò soffrono un enorme danno economico). Ci mancherebbe, per carità.
Scaliamo e scendiamo montagne virtuali.
La risposta della “comunità” (si passi il termine) è stata compatta, nonché dotata di quella giusta dose di autoironia che aiuta ad alleviare le situazioni più serie ed è indice di intelligenza. Da un mese ormai scaliamo e scendiamo montagne virtuali, ci dilettiamo in simulazioni di vita reale, dimostrando di poterci adeguare. Tutto questo, dobbiamo dirlo, ingoiando più di qualche rospo nel momento in cui una campagna vergognosamente improntata a fomentare odio sociale e tradotta in norme la cui natura è puramente demagogica (e sulla cui legittimità sia lecito sollevare più di qualche dubbio, almeno finché vivremo in uno Stato di Diritto: si veda in proposito l’ottima disamina di Luca Casarotti sul blog Giap Criminalizzare il jogging) ha puntato il dito contro chi pratica attività sportiva.
Il senso di colpevolizzazione.
Ammettiamolo: tanti di noi che “fanno montagna” praticano anche altri sport e spesso condividono la stessa passione per la corsa o la bici o altro. E non possiamo nascondere amarezza e uno sgradevole senso di colpevolizzazione in questa campagna, intellettualmente disonesta e fuorviante, che ha distolto l’attenzione dal vero e grave problema odierno spostandola su un “non-problema” – qui si ci sentiamo di dire: chi non sta facendo il proprio dovere? Il cittadino o la stampa? Il punto vorremmo che fosse chiaro: non ci interessa la passeggiata o la corsa o questi surrogati di vita cui siamo costretti. Teneteveli. A noi preoccupa, e non poco, l’uso costantemente emergenziale e bulimico delle norme dettato da pulsioni di pancia più che di cervello. La cui fondatezza vacilla e in prospettiva ci lascia inquieti. Perché le situazioni di emergenza hanno vita facilissima nel trasformarsi in condizioni permanenti.
L’attività sportiva è un problema!
Per inciso, tutto ciò amareggia ancor di più perché conferma che questo Paese non solo non sostiene l’attività sportiva, ma la considera persino un problema. Manca totalmente di una cultura dello sport non inteso come “vizio” di privilegiati, ma come parte integrante di una società del benessere, ovvero dello star bene. Condizione preordinata alla cura del sintomo, humus fertile sul qual far germogliare una politica della prevenzione. Non si può fare a meno di notare come in uno stato di emergenza sanitaria, legata alla diffusione di un virus che agisce provocando crisi respiratorie, l’uscire per andare a comprare le sigarette sia ancora considerata un’assoluta necessità.
Ma siamo persone abituate alla fatica. E alla rinuncia. Non stiamo qui affermando o pretendendo attenzioni particolari o deroghe. Non ce ne importa nulla, se queste poi riguardano solo “alcuni” a “certe condizioni” e via andando di labirintici ragionamenti che nulla hanno a che fare né con la risposta all’emergenza né con l’organizzazione civile. Non ce ne importa nulla adesso.
Non può esistere alpinismo senza libertà.
Non può esistere se questa libertà non è per tutti. Fatica, rinuncia. Adattamento. Se c’è un insegnamento che quasi quotidianamente emerge nelle nostre coscienze è questo. L’alpinismo ci porta costantemente là dove il rischio esiste. Ci accompagna. Lo cerchiamo, quasi. Ma lo cerchiamo nel pieno delle nostre facoltà cognitive ed intellettive, le mettiamo alla prova proprio lì, dove è necessario valutare, analizzare, prendere decisioni ed agire di conseguenza. In altre parole, assumere un atteggiamento responsabile. Non siamo certo noi che facciamo o faremo fatica ad adattarci. Ma una cosa, sì, facciamo fatica a comprendere. Perché ogni sforzo, ogni rinuncia, ogni attesa deve essere finalizzata a qualcosa. Alla vetta, alla via, al passaggio da superare, ad un luogo da contemplare. Persino ad un ritorno a casa. Lì attingiamo alle motivazioni profonde. Lì l’alpinismo emerge come “pratica” (non ci piace chiamarlo sport) che forma interiormente. Non ci rende affatto superiori, come un tempo si voleva proclamare. Ci fa conoscere le debolezze e ci da strumenti per affrontarle.
Sì, sappiamo aspettare.
Ma dobbiamo sapere che cosa. Perché più di ogni cosa abbiamo a cuore la libertà. Possiamo nasconderci? No, sarebbe ipocrita dire che non soffriamo la reclusione. Ma sarebbe anche stupido ed egoistico (già lo siamo abbastanza!) affermare che ne soffriamo più di altri. No, è una stupidaggine. Soffriamo come tutti. E soffrono di più sicuramente coloro che per mestiere affrontano il dramma della malattia negli ospedali (e lo affronta ora come prima, mai dimenticarlo). Soffrono famiglie costrette in pochi metri quadri in un condominio nelle periferie delle città, nel cercare di fare sorridere i bambini costretti in una innaturale cattività (e smettiamola per cortesia di dire che si “adattano meglio”). Soffrono i soli, gli emarginati, gli anziani stritolati dal terrore della malattia. Tutti coloro il cui futuro ogni giorno di più si riduce al prossimo giorno e basta. Chi siamo noi per pretendere? Nessuno. E quindi ci siamo adattati.
Ma ora, e con allarme, ci chiediamo se a tutto ciò sappiamo rispondere proprio grazie a quella cultura scientifica, razionalista ed illuminista, che ha scacciato i demoni dalle vette restituendocele nella loro essenza, ovvero straordinarie manifestazioni della Natura. Cultura che è fondativa della nostra civiltà e grazie alla quale ci possiamo permettere il privilegio di scalare, sciare, esplorare, volare.
Come sarà il dopo?
In molti giornalisti, scrittori, filosofi, intellettuali e pensatori, in questi giorni si interrogano sulle pagine dei giornali su come sarà il dopo. Molti si orientano a sostenere che non sarà più come prima. Rimane indubbio il concetto che un evento di tale portata porterà con se il vento del cambiamento, che è sempre positivo quando ci libera da cattive abitudini, incrostazioni malsane sedimentate nel tempo, schemi mentali rigidi ed obsoleti; ma non può diventare il pretesto per privarci di quello che faticosamente abbiamo conquistato come società democratica.
La paura, si dice, è parte integrante delle nostre passioni. “Dobbiamo” avere paura. Ma la paura è qualcosa che ci deve accompagnare senza tenerci in ostaggio. La maggior soddisfazione di ogni alpinista starà sempre nell’aver saputo accogliere e accettare la propria paura mantenendo il controllo di sé. Per combattere la paura abbiamo bisogno di conoscenza. Abbiamo bisogno del meglio di noi stessi come individui e come società. Abbiamo bisogno delle migliori menti, dei migliori strumenti, delle migliori strategie possibili. Con quelli siamo pronti ad affrontare ogni difficoltà. Ma ci chiediamo se tutto ciò, adesso, possa essere messo veramente in pratica. Se davvero possiamo dispiegare il meglio di quanto questa società ha prodotto per scacciare di nuovo i mostri.
Sapremo passare dal divieto al concetto vero di libertà?
Non vogliamo sapere né quando né come torneremo alle montagne (ci piacerebbe, ovviamente). Non fraintendeteci. Questo ora è totalmente secondario. Ma con preoccupazione ci chiediamo se.
Se questa società che come si è visto ha saputo reagire soltanto vietando, demonizzando, esacerbando odio sociale sia in grado di dare una risposta concreta, razionale e pragmatica a tutto ciò. Non basta ripetere il mantra “non sarà più come prima”, se questo “non sarà” corrisponderà ad una “Non-vita”. Vogliamo sapere come sarà dopo. Anzi, come può essere già “adesso”. Perché tra poco alla pazienza e alla coscienza civica si andrà sostituendo apatia, smarrimento e frustrazione. Esauriremo la voglia di scherzare, simulare, ironizzare. Nessuno come noi sa cosa voglia dire sognare. E il rischio, su questa china, è che perderemo anche quella. E allora sì, avremo fallito.
Avremo fallito non tanto come comunità scientifica rispetto all’emergenza sanitaria, ma come società democratica che ha fatto del concetto di libertà un principio costituzionale, pagato a caro prezzo all’inizio del XX secolo.
Libertà di andare oltre l’ultimo chiodo.
Libertà che si lega indissolubilmente al senso di responsabilità personale, responsabilità sull’impatto delle nostre azioni su noi stessi e sulla comunità, responsabilità sulle nostre scelte, come quando ci alziamo sopra l’ultimo chiodo per affrontare una parete di cui non conosciamo appigli e appoggi, ma sappiamo che dieci metri più alto c’è una cengia dove fermarci. Abbiamo studiato il percorso, abbiamo pianificato una strategia, abbiamo un primo obbiettivo da raggiungere. In mezzo dieci metri di ignoto in cui saliamo responsabilmente, mettendo in atto coscienza e conoscenza per tutelare noi stessi e il nostro compagno di cordata. Dieci metri che non sono esenti da rischi, il rischio è insito nel vivere quotidiano. La paura ci aiuta a percepirlo, la conoscenza intima di noi stessi, la razionalità, il desiderio di libertà ci servono per superarlo e non rimanere bloccati in parete.
Oggi non vogliamo sentirci colpevoli di voler semplicemente vivere, pensare e prenderci le nostre responsabilità. Semplicemente, oggi, non vogliamo avere paura.
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(1) Questo articolo è pubblicato sul sito Rampegoni del quale Saverio D’Eredità e Carlo Piovan sono autori e fondatori (rampegoni.wordpress.com).