La macchina sembrava volare su quel nastro d’asfalto mentre a destra e sinistra a delimitarne lo spazio, lampioni e tralicci del tram: a destra le prostitute, a sinistra i trans.
La centrale operativa ci aveva inviato per una rapina all’interno di una farmacia.
L’autista della Volante sembrava veleggiare su quel sentiero d’asfalto dove le luci e gli odori si confondevano con altri chiarori e fiuti provenire dai venditori ambulanti di panini. Con la mano destra reggevo il microfono della radio e ascoltavo le indicazioni della Sala Operativa: “Massima attenzione due giovani a volto coperto, con pistola, sono ancora all’interno”.
Quella sera ero di poche parole e, alla radio di servizio, mi limitavo a rispondere “ricevuto”. Con la mano sinistra azionavo la sirena bitonale, a dire il vero con parsimonia, solo per farmi strada agli incroci più trafficati, mai mi era successo di farne un uso così limitato. Mi dava fastidio quella sera, le altre volte invece no, dava coraggio a me e a quelli del mio equipaggio, ci era amica, ci dava la forza e coraggio di osare, anche dove sapevamo che il rischio era più grande del nostro ardire.
Il collega seduto dietro l’autista sobbalzava sulle pietre di corso Sempione e ad ogni curva sebbene ancorato con i piedi al pavimento dell’auto, veniva sballottato a destra e sinistra come un fuscello in mezzo alla tempesta: “Volante Sempione, sul posto” lapidario comunicai. Eravamo arrivati nel giro di pochi minuti, una tirata tutta d’un fiato su quel vialone d’asfalto e pietre che ci aveva fatto volare come se fossimo su di una rotta aeronautica, sebbene qualche miglio più in basso. Il primo a scendere dalla macchina il collega di scorta, non stavo bene, appoggiai i piedi a terra ed ebbi un fastidioso senso di nausea e insicurezza: «Sono appena scappati in direzione viale Certosa», fagocitò il farmacista venuto sull’uscio del negozio.
Ho lasciato la città per ritornare nella mia terra, sopra la valle, dove ogni cosa ha un tempo diverso rispetto ad una misura che non riconosco più.
Entrai con fatica trascinandomi le gambe che sembravano due zavorre ai fianchi, vidi a mala pena il bancone della farmacia e caddi a terra. Mi sembrava che il mondo mi girasse attorno e mi spingesse dal basso all’alto, da destra a sinistra, un senso di confusione totale mi avvolgeva, percepivo luci e suoni mai conosciuti e visti prima di quella notte di primavera. Mi trovai sulla barella disteso in terra con polsi e caviglie costrette da nastri di nylon di colore rosso. Al Fatebenefratelli il dottore di turno lapidario mi disse: «Labirintite dovuta ad intossicazione alimentare, abbia pazienza, riposo assoluto e auguri». Ripresi con un filo di voce: «Niente di grave quindi…» aggiunse: «Assolutamente no, unica rottura di balle, potrebbe soffrire in futuro di vertigini… tutto qui».
Al tempo divoravo chilometri con la bici da strada, avevo lasciato la mountain-bike per quei nastri di asfalto arroventato, avevo dimenticato il silenzio dei sentieri, per i rumori di strade trafficate. In quella notte milanese, mai avrei pensato che il futuro mi avrebbe riportato a salire declivi ammantati di verde dalle mille sfumature, a bagnare con il sudore della fronte l’eternità della roccia che sotto ai miei piedi si faceva sentiero e viatico per l’anima, a carpire di ogni fremito di foglia, il perché di quell’alito di vento, a lasciarmi abbandonare al frastuono del più prezioso silenzio di quelle cime, a bere quell’acqua pregna di vita, nutrice del mio corpo e della mia essenza nata lassù, dove ogni balza e ogni vetta sono custodi del mio esistere.
Ho lasciato la città per ritornare nella mia terra, sopra la valle, dove ogni cosa ha un tempo diverso rispetto ad una misura che non riconosco più. Da quella notte tutto mi sembra più difficile, anche se probabilmente in vero non lo è. Per ogni traccia topografica prescelta, accanto ne corre sempre un’altra, è come se la percorressi due volte, perché solo per me, la seconda è il sentiero nero. E allora la gioia di aver percorso due tracce su di un’unica rotta, mi appaga doppiamente; la prima perché forse, mi veicola alla cima, la seconda ben più intima, perché ogni passo compiuto equivale al raggiungimento della cima più intrigante del mondo, non la più difficile.
Il mio sentiero nero allora affiora nella paura di quell’insicurezza che molto più vigorosa della forza di gravità, mi fa attaccare alla roccia con i piedi e mani, mi fa strisciare il sedere a terra e irrigidisce ogni muscolo e tendine, mi fa sudare e pregare di tornare agli affetti più cari e, solo una volta raggiunto il riparo dal vuoto, mi riconsegna la dignità umana. Non a caso tutto è nato in quel viale di asfalto di Milano, dove la perdita della dignità umana venduta per poca cifra sotto i lampioni a bordo strada, si confonde con un’altra dignità riconquistata, la mia, quando ogni sentiero nero svanisce e si fonde lento col timido farsi della sera, lontano dalla città.