Per capire, almeno un poco, l’anima dei romanzi di Marziani[1] , serve camminare, magari con la neve che scricchiola sotto le scarpe per le strette vie del paese di pietra che lo ospita, quasi in fondo alla Valsesia. Io l’ho fatto: non lo ho mai trovato in casa ma l’ho ben immaginato seduto davanti alla piccola finestra rivolta a sud mentre, indossati i suoi occhialoni dalla montatura finta-armani, dava vita a qualcosa di simile ad uno stream of consciousness. Tipo quello di Svevo più che di Joyce. Ovviamente con le obbligate proporzioni: non perché il nostro autore non sia in grado di scrivere trecento e più pagine aprendo un vecchio cassetto pieno di altrettante vecchie foto e cartoline e lettere su carta azzurrina e bottoni arrugginiti ma Marziani ha anche altro da fare. Ad esempio pescare nel torrente Artogna.
É da quel flusso di (in)coscienza che nasce Dove dormi la notte, un racconto di Resistenza, Pesca e Socialismo, da poco pubblicato dalla piccola (e, come si diceva una volta, benemerita) casa editrice MonteRosa nella collana Gli Anemoni. Un racconto lungo – o un romanzo breve – per mettere in luce una vita straordinaria rimasta nascosta tra le pieghe del tempo e avere anche la scusa per dirci di due cose, la pesca e il socialismo, che oggi non sono più come il protagonista le ha conosciute.
Nei fiumi italiani c’era molta più acqua di adesso, quasi tutta pulita, con tantissimi pesci (…) avere parenti pescatori era un po’ una benedizione, significava poter contare su trote e temoli per cena (…)
Un lungo scorrere di pensieri che prendono il via con un piccolo imbroglio. Niente di grave: il libro racconta la storia vera ma che sembra finta di Giovanni Battista Stucchi e Marziani decide di chiamarlo zio pur non essendo il nipote, rubando il diritto ad uno dei suoi più cari amici (che, per caso, si chiama pure lui Michele). Lo Stucchi di Dove dormi la notte era un mitico ragazzo del ‘99, milleottocentonovantanove, che attraversò due guerre, volontario nella Prima, già laureato, sposato e padre di una bambina nella Seconda dove da capitano degli Alpini sopravviverà con pochi altri alla battaglia di Nikolaevka. Parteciperà poi alla Resistenza: lui è lì in prima fila nella fotografia più iconica della liberazione dell’Italia dai nazisti e dai fascisti scattata il 6 maggio 1945 a Milano.
C’è tutto il comando generale del CVL, il Corpo dei Volontari della Libertà: si riconoscono Mario Argenton, Ferruccio Parri, Luigi Longo, Raffaele Cadorna, Enrico Mattei e lui, Giovanni Battista Stucchi, il comandante Marco Federici, Gibì Stucchi, il nonno Gibi e lo zio Battista. Poi, ancora, avvocato e politico appassionato, deputato per il Partito Socialista (quando essere socialista significava appartenere ad un club di politici saggi, capaci di realismo e di lungimiranza sociale e non ad una marmaglia incravattata che darà il via allo sfacelo della Prima Repubblica) e consigliere comunale a Monza per trent’anni: uomo che resta defilato dal mainstream ma che ha sempre vissuto con lucidità non comune gli accadimenti di un Paese che ancora oggi fatica ad allontanarsi dal tanfo del fascismo.
Come al solito al termine della lettura di una tua recensione, mi prende la fregola di “avere” subito quel libro, grazie!