Il sogno iniziò a scricchiolare già a metà tragitto, quando ci trovammo bloccati nel bel mezzo della strada. Alla nostra destra un muro di neve, alla sinistra una corsia innevata e, poco oltre il guardrail, il vuoto. L’automobile verde pistacchio, stracarica di attrezzatura, vestiti, copricapi improbabili, gente festante e qualche vecchio cd, non riusciva più ad avanzare. Noi, indecisi sul da farsi, restavamo altrettanto fermi, poco dopo una curva della strada provinciale che porta all’altipiano. Ci trovavamo nella fascia in cui la pioggia inizia a cambiare stato e si trasforma in neve. Una neve pesante e bagnata ci colpiva con veemenza e noi stavamo perdendo la carovana.
L’unico modo per continuare la nostra peregrinazione era quello di fissare un paio di catene alle ruote. Montare le catene di un’auto non è particolarmente agevole, a maggior ragione se ti metti a farlo per la prima volta sotto una fitta nevicata. Fradici di neve, venivamo salutati a intervalli regolari da tsunami di neve, altrettanto bagnata, provocati dagli automobilisti impazienti nel superarci. Lentamente e con poca fiducia del lavoro fatto, ci rimettemmo in moto. Di lì fino alla base di partenza della nostra escursione il paesaggio si fece via via più bianco ed ovattato. Scesi dal nostro furgoncino verde però, realizzammo subito che quella che ci sembrava un’avvolgente atmosfera natalizia, altro non era che un campo di battaglia, dominato da raffiche di vento e temperature aguzze.
Dovevamo sbrigarci se volevamo godere almeno un po’ di questa neve tanto agognata. Il resto della carovana, stava ormai già rientrando alle loro automobili e le strade sembravano popolate per la maggior parte da spericolati amanti del controsterzo in curva.
Il percorso lo conoscevo ormai a memoria, sebbene fosse passato oltre un anno dall’ultima volta. Le continue curve, utili per ammorbidire la costante pendenza che ti porta a oltre duemila metri sopra la città, si inoltra in un boschetto a bordopista della storica località sciistica. Il bosco va via via facendosi più rado mentre noi persistiamo nella nostra salita. L’umore è alto, scherziamo l’un l’altro mentre seguiamo le tracce lasciate da chi è passato prima di noi. Alcuni con le ciaspole, altri con gli scii. Solo il vento che ci ha accolti in fondovalle non sembra volerci abbandonare.
Mentre saliamo, sulla destra intravediamo nella burrasca i piloni degli impianti di risalita dismessi. Se non fosse per la pandemia che ha colpito indiscriminatamente terre e paesi lontani, sarebbero in piena funzione, e così i registratori di cassa di tutto l’indotto. Quest anno, gli unici visitatori saremo noi, attori senza nome di una sconclusionata armata Brancaleone in cerca di un po’ di inverno. A ben vedere, però, non siamo soli. Oltre a qualche altro avventuriero solitario, che desiste saggiamente dal raggiungere la vetta, il vento ci ricorda violentemente la sua presenza. La faccia ormai intorpidita e i rivoli di sudore che iniziano a freddarsi sulla schiena ci fanno accelerare il passo. Ormai la cima è così vicina, che conviene restare sulla traccia e scendere solo una volta raggiunto l’ampio pianoro di vetta.
Gli ultimi passi ci portano finalmente al culmine, ma ci accorgiamo subito che non vogliamo restarci a lungo. Il soffiare incessante del vento continua a prendere forza e il freddo inizia a penetrare le giunture. Di colpo, tutto diventa faticoso e ogni movimento sembra rallentato da una resistenza esterna. Tra il bere quel po’ di tè caldo che ci eravamo portati e prendere l’unica decisione disponibile, quella di scendere il prima possibile, sembra passare un’eternità. Ci impieghiamo più del dovuto e non riusciamo nemmeno ad organizzarci tutti in tempo. Cosicché mi ritrovo, un’altra volta, in fondo alla carovana. Questo giro, una carovana di pellegrini maledetti. Marinai di quota in cerca di rifugio, ma che trovarono tempesta.