Reportage

#92 IL LIBRO PROIBITO DEL TIBET

testo e foto di Adriano Ferrio  / Arese (MI)

02/01/2021
9 min
Il Bando del BC20

Il libro proibito del Tibet

di Adriano Ferrio

Chi non ha come sogno nel cassetto un viaggio in un posto speciale? Per chi ama la montagna le mete desiderate possono essere tantissime, ma con alcune caratteristiche in comune: devono essere in alta quota, devono essere selvagge, devono avere tante storie da raccontare. Per me quel posto speciale è il “paese delle nevi”: il Tibet.

Parlando del Tibet vengono subito in mente le altissime cime innevate, i ghiacciai sterminati, le mandrie di Yak, i templi pieni di statue bellissime e terribili, i monaci buddhisti con i loro Chockor, lo strumento di preghiera tibetano, composto da una maniglia ed un cilindro con appesa una catenella, che fanno girare vorticosamente con la mano recitando i Mantra.

Nell’estate del 2010 insieme a mia moglie abbiamo deciso di vedere con i nostri occhi tutto questo, ci siamo perciò regalati una vacanza di due settimane tra Tibet e Nepal, un lungo viaggio in fuoristrada da Lhasa a Kathmandu.

Partenza da Malpensa, e dopo uno scalo prima a Doha e poi a Kathmandu, finalmente il pomeriggio del 12 agosto stiamo volando sopra la catena dell’Himalaya. La vista dall’alto lascia senza fiato, anche se purtroppo dato il periodo (siamo in piena stagione dei monsoni), molte cime si nascondono tra le nuvole, ma fra tutte riusciamo ad intravedere l’inconfondibile vetta dell’Everest.

Atterriamo all’aeroporto di Lhasa, una struttura moderna e funzionale, decisamente si comincia a vedere l’intervento del governo, che negli ultimi anni ha investito molto per migliorare i collegamenti ed i servizi del Tibet, e per avvicinarlo alla Cina.

Sbarchiamo, e giunti al controllo bagagli (qui si controllano anche in entrata al paese) una giovane guardia cinese comincia a frugare nel nostro zaino e scopre un “libro proibito”: è la guida turistica del Tibet della Lonely Planet. La guardia ci sequestra il libro, io sono stupefatto e chiedo spiegazioni. Il superiore del ragazzo che ha effettuato il sequestro si avvicina e ci spiega con un inglese un po’ stentato che il problema di quel libro, è di non menzionare che il Tibet è una regione della grande Cina, perciò è un libro fuorilegge e deve essere sequestrato.

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, così recita l’articolo 21 della Costituzione Italiana. Per chi come me è nato in Italia (almeno dopo il 1947) questo è un principio fondamentale di libertà, ma purtroppo qui il governo la vede diversamente.

Non protesto ulteriormente, non servirebbe a nulla. Prendo il mio zaino, lascio il libro ai militari ed esco dall’aeroporto. Appena facciamo un passo fuori dalla porta principale veniamo raggiunti dalle due guide che ci sono state assegnate: saranno loro a “scortarci” e guidarci in tutti i luoghi del paese che ci sarà permesso visitare. Sono due ragazzi tibetani gentili, parlano abbastanza bene l’inglese (almeno uno di loro), hanno studiato per fare le guide turistiche, posseggono un telefono cellulare e scambiano SMS con i loro amici (è il 2010 e non c’è ancora stato il boom degli smartphone).

Ci portano in albergo a Lhasa e lì ci lasciano, almeno in città io e mia moglie saremo liberi di muoverci in autonomia. Cominciamo ad esplorare i dintorni ed a girovagare senza una meta precisa, vogliamo comprare una bottiglia d’acqua ma purtroppo non abbiamo ancora cambiato la valuta, perciò ci fermiamo ad un botteghino ed offriamo un pagamento in dollari. Il commesso sgrana gli occhi e si rifiuta in modo categorico di accettare il nostro denaro. Possedere valuta straniera qui è assolutamente vietato e se i poliziotti lo scoprissero lui passerebbe seri guai (almeno così ci hanno spiegato in seguito). Lasciamo perciò la bottiglia e ce ne torniamo in albergo.

Lhasa si trova a 3650 metri di altitudine, perciò dopo cena, la mancanza di ossigeno comincia a farsi sentire e dopo una notte insonne ci svegliamo sia io che mia moglie con le tempie che pulsano ed il cervello che vorrebbe uscire dal cranio.

Alla mattina dopo colazione, nella hall dell’albergo facciamo amicizia con un dottore canadese, in vacanza con la figlia, che ci consiglia di acquistare un prodotto in farmacia che allevia i sintomi del mal di altitudine. Ci scrive su un bigliettino il nome della medicina in ideogrammi, che mostro poi al farmacista per l’acquisto. Il prodotto è a dir poco miracoloso, ma dopo 10 anni non ho ancora capito cosa fosse.

Possiamo a questo punto iniziare il nostro giro. Lhasa antica è bellissima, il Potala è grandioso e visibile da ogni parte della città, ma anche i monasteri di Sera e Drepung sono affascinanti, Qui vediamo i monaci che insegnano ai bambini, ed al termine della lezione fanno un gesto con le due mani a rappresentare “il taglio dell’ignoranza”. Esiste poi anche una Lhasa moderna, molto efficiente, pulita e ordinata, ma anonima e completamente “cinesizzata”.

Girare a piedi per le stradine di Barkhor, la vecchia zona del mercato di Lhasa, è una esperienza unica. C’è una moltitudine di persone intorno a noi, giovani ed anziani, i più vecchi vestono con abiti tradizionali tibetani, i più giovani invece in stile “occidentale”. Tantissimi seguono il percorso che gira intorno al Jokhang, il tempio probabilmente più sacro del Tibet, genuflettendosi ad ogni passo. È una pratica estenuante e faticosa ed il percorso molto lungo, qualcuno lo compie con il semplice supporto di 4 tavolette di legno da mettere sotto le ginocchia ed i gomiti.

In generale le persone che incontriamo sono un po’ restie e sfuggenti nei nostri confronti, purtroppo in centro città, più che in altri luoghi, il clima di oppressione è evidente, ci sono telecamere dappertutto e polizia sui tetti. Le proteste avvenute nel 2008 a Lhasa hanno portato ad un inasprimento delle condizioni di controllo e censura e la gente ha timore a parlare con gli occidentali.

Il giorno successivo i nostri due “angeli custodi” ci raggiungono con il fuoristrada ed iniziamo il viaggio lungo la cosiddetta “strada dell’amicizia” che collega Lhasa con Kathmandu. Viaggiamo verso il monastero di Samye e poi verso quello di Trandruk, dove esiste un famoso thangka composto da 29000 perle.

Le nostre tappe sono a Tsedang e poi Gyangtse che raggiungiamo dopo un lunghissimo viaggio attraverso un percorso spettacolare che parte dalla vallata del fiume Yarlung e si inerpica fra cime e ghiacciai superando il passo di Khamba La, costeggiando il lago Yamdrok, e attraversando il passo di Karo La (5045 metri). A 5000 metri il clima è freddo e secco. Noi ci siamo abbastanza acclimatati, e grazie anche alla medicina miracolosa del nostro medico canadese, l’altitudine non la sentiamo più.

Visitiamo il monastero Palkhor Choide ed il chorten Kumbum, il cui nome significa letteralmente “centomila immagini” per indicare il grande numero di dipinti e statue di divinità che ospita. Scattiamo fotografie a raffica, uno dei benefici del digitale è che non dovremo dilapidare una fortuna negli sviluppi.

Proseguiamo per Shigatse e visitiamo il monastero di Tashi Lhunpo, edificato nel 1447 e caratterizzato dal tetto dorato che domina la cittadina. Vogliamo fare il giro esterno delle mura e ci avviamo inconsapevolmente sul percorso in senso antiorario. Dopo un tratto di strada incrociamo dei fedeli che stanno percorrendo il tragitto in senso opposto, facendo girare le ruote della preghiera poste lungo il sentiero. Quando ci incontrano ci prendono a male parole (o meglio, io non capivo il significato, ma il tono della voce pareva tale) e ci indicano che il senso corretto è quello inverso (senso orario). A quel punto, invertiamo la marcia ed impariamo anche noi che in questo paese tutto gira in senso orario.

Il giorno successivo visitiamo il monastero di Shakya, fondato nel 1073, per raggiungere poi Shegar da dove iniziamo la discesa verso la vallata attraversando villaggi e splendidi paesaggi. Incrociamo molti contadini, con le loro pale in spalla che camminano verso casa. Qui l’agricoltura è difficile, siamo molto in alto, la terra è dura e non ci sono macchine.

Prima di ridiscendere ai 2500 metri di Zhangmu bisogna superare l’ultimo altissimo passo Lalung La, a 5220 metri, da dove si potrebbe osservare lo Shishapangma, una delle più alte cime della catena himalayana, se solo le nuvole quotidiane non ne ostruissero la vista.

Ultima tappa in Tibet è Kodari al confine con il Nepal. Qui salutiamo la nostra scorta, sono stati molto gentili ma la loro presenza, spesso non richiesta è stata veramente opprimente. Fanno il loro dovere, ma essere controllati tutto il giorno da due estranei non ti fa certo sentire a proprio agio.

Attraversiamo il “ponte dell’amicizia” che collega le due rive del fiume Bhotekoshi e rientriamo verso Kathmandu con un taxi. Piove a dirotto e la strada è brutta, stretta e con quasi nessuna sicurezza, attraversata da camion puzzolenti e bus stracarichi, con valigie, pacchi e persone sul tetto!

Giunti a metà discesa ci fermiamo, la strada è bloccata da una frana caduta da poco. L’autista della nostra auto chiama un amico di un villaggio che si trova più a valle, il piano è attraversare il blocco a piedi ed andare a prendere il taxi sull’altro lato.

Un po’ preoccupati ci avviamo a piedi con i nostri zaini sulla testa, attraversiamo fango e detriti ed arriviamo dall’altra parte, dove incontriamo il nostro nuovo autista che ci porterà in città. Ovviamente quella mattina non ha smesso di piovere un attimo ed arriviamo ancora fradici a destinazione: la fantastica e caotica Kathmandu. Il clima che si respira qui è ben diverso rispetto al Tibet, la povertà è molto più evidente, gli odori sono più forti, i motorini più caotici, ma le persone sono molto più sorridenti ed aperte.

Il nostro viaggio non finisce qui, il Nepal offre paesaggi e luoghi meravigliosi, ma ne parlerò in un prossimo racconto.

Ma cosa ci è rimasto nei ricordi del Tibet? I luoghi mistici e favolosi, l’odore di incenso dei templi, il paesaggio aspro, secco e privo di vegetazione. E poi le persone, fiere, sorridenti e timide. Per molti di loro, soprattutto quelli più anziani che hanno vissuto in prima persona l’invasione del Tibet del 1950, il sorriso nasconde l’amarezza di quello che hanno perso. La Cina sta portando molte cose buone in Tibet, strade, scuole, medicine, telefoni, ma il prezzo da pagare è altissimo: censura e perdita della libertà e dei diritti. Non esiste cosa che non sia controllata dal governo centrale: l’amministrazione, la religione e come le persone devono vivere e pensare.

Il processo di integrazione del paese passa attraverso anche una immigrazione di massa di famiglie cinesi, che almeno nella capitale e nelle poche altre città fa si che tutti i posti chiave siano gestiti da cinesi. Solo le zone rurali riescono a mantenere ancora una piccola indipendenza, almeno in termini di tradizioni e modo di vivere, ma quanto potrà durare?

Le vecchie generazioni che sono nate libere ed hanno resistito contro l’occupazione stanno scomparendo, e con loro il ricordo di cosa significasse, ma anche il prezzo che aveva anche tale indipendenza, e cioè l’isolamento dal resto del mondo.

E le nuove generazioni? Studiano nelle scuole cinesi, parlano inglese, gli piace la televisione ed i cellulari, vogliono modernità e benessere come chiunque. Sarebbe bello che il progresso riuscisse a sposarsi con la tradizione, in fin dei conti è la Via di Mezzo ricercata dai buddisti, purtroppo in Tibet è difficile da ottenere, il vecchio paese è veramente arretrato, ed il nuovo paese viene costruito sui principi dettati da quella che oramai è una superpotenza mondiale: la Cina.

Nell’introduzione della Lonely Planet sul Tibet, redatta direttamente dal Dalai Lama, c’è scritto: “Continuo a credere che alla fine si troverà una soluzione al problema tibetano accettabile per entrambe le parti” e relativamente ai visitatori “sono fiducioso che – una volta tornati a casa – questi viaggiatori potranno riferire con franchezza ciò che hanno visto e sentito”. Io ho provato a farlo in questo racconto perché spero che prima o poi la soluzione “accettabile” per entrambe le parti venga trovata.

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foto:
1. Il grandioso Potala.
2. Un piccolo Stupa, lungo la “friendship highway” tra Tibet e Nepal.
3. Vecchie e nuove generazioni nelle stradine del Barkhor (Lhasa).

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Adriano Ferrio

Adriano Ferrio

Sono un appassionato di montagna, costretto a vederla spesso solamente dal balcone di casa, quando nebbia e smog di città lo permettono. Ma forse anche per questo il mio sentimento verso di lei è forte, e come per un amante lontana, scrivo lettere di amore nell’attesa di riabbracciarla.


Il mio blog | Non ho un blog personale, scrivo quando sento di avere qualcosa da raccontare. Ho scelto altitudini.it perché qui non si descrivono imprese o conquiste, ma vere storie di montagna. Altitudini.it è la mia rivista digitale.
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