testo e foto di Fabio Dal Pan
N. avrà avuto undici anni – tra i dieci e i dodici comunque, anche se l’età esatta non è fondamentale; importante, ma non fondamentale – la mattina in cui si svegliò davanti alla montagna.
Non ne conosceva il nome, la posizione né tanto meno riusciva a vederne la cima.
In effetti più che una montagna aveva di fronte tutto un orizzonte riempito per intero da pendii erbosi, boschi, bastioni rocciosi, gole e valli, dirupi.
E dappertutto, che salivano su quell’orizzonte, strade. Tantissime, di ogni tipo.
La principale, larga ed asfaltata, coperta di ragazzi all’incirca della sua stessa età, passava a pochi metri da lui.
Ma poi c’erano strade sterrate che sparivano tra gli alberi; carrarecce di ghiaia o di cemento che si intersecavano fra loro; e poi sentieri, a centinaia, da quelli segnati di fresco a quelli appena accennati nell’erba.
Stette un po’ in attesa, cercando di capire come orientarsi.
Attorno a lui una fiumana di suoi coetanei gli sfilava accanto e andava poi a perdersi in una di quelle infinite possibilità.
N., ancora indeciso sul da farsi, percorse quei pochi metri e s’incamminò sulla prima che trovò, la strada asfaltata.
La pendenza regolare e il gran numero di persone favorivano – incitavano, quasi, obbligavano – l’allegria e le chiacchiere ed N. si trovò da subito dentro una bolla di voci, parole, discorsi, anzi dentro un’infinità di bolle diverse tante quanti erano i gruppetti che salendo si formavano naturalmente per gli interessi, la velocità e la provenienza dei componenti.
Lui buttava lì una frase qui, una là, ma raramente riusciva ad oltrepassare quelle pareti invisibili che formavano le varie compagnie, e anche quando le frasi entravano era come se nello sforzo avessero perso tutto il loro slancio e arrivassero sempre distorte, indecifrabili.
Presto N. si ritrovò a camminare da solo, facendo bolla con nessun altro se non sé stesso, ascoltando sempre più da lontano il rumore di tutte quelle voci che gli parevano mano a mano più forti, più ostili, più insopportabili.
Così, quando vide un cartello che indicava una svolta a destra si fermò giusto un attimo a guardare quelli che fino a quel momento erano stati i suoi compagni di viaggio, dai quali aveva imparato il disgusto per la folla e la gioia della solitudine.
Poi si girò ed entrò nella strada di ghiaia che gli si apriva davanti.
Lì la fiumana era più rarefatta, meno della metà rispetto a prima, forse meno, e di conseguenza le parole e i rumori.
Dopo poco gli si affiancò un ragazzo che andava solo anche lui.
Chiacchierarono a lungo, N. imparò molte cose e anche l’altro parve non dispiacersi della compagnia.
Assieme raggiunsero un gruppetto poco più avanti e dopo essersi presentati continuarono con loro.
Ogni tanto si fermavano a lato della strada, qualcuno tirava fuori qualcosa da bere da mangiare e stavano lì delle ore, a discutere, confrontarsi, scambiarsi opinioni sul nome di un fiore o sulle abitudini degli animali che intravedevano, sulle costellazioni o sulla forma e la genesi di quella montagna.
Passò così molto tempo, durante il quale la voce di N. si rafforzò, le sue parole divennero più esatte, la sua intelligenza più viva.
Eppure ogni tanto sentiva il bisogno di allungare il passo, godersi anche con il corpo quella stradina che saliva apparentemente all’infinito tra radure, boschi di faggi e carpini, ma ogni volta che lasciava andare le gambe un po’ di più i suoi amici restavano dov’erano, nelle loro pause sempre più frequenti, nelle loro discussioni sempre più fitte.
N. attese ancora, poi ancora, finché un giorno – da un tornante della strada dove stava aspettando gli altri – vide un sentiero che saliva in un incavo delle rocce e delle persone passare correndo.
Si guardò attorno, sperando che arrivasse qualcuno dei suoi a cui chiedere un consiglio, ma non arrivò nessuno.
Così uscì dallo sterrato come si scavalca una staccionata, e senza pensarci troppo imboccò il sentiero.
Raggiunse il gruppetto che aveva visto poco prima e si accodò.
Erano una decina, tutti in pantaloni corti e canottiera, parlavano quasi nulla, sempre concentrati sugli appoggi dei piedi, gli occhi focalizzati sul metro di terreno davanti a loro.
All’inizio N. faticò a tenere il loro ritmo, specialmente in discesa, ma in breve imparò la concentrazione necessaria e poté godersi appieno tutta la gioia del suo corpo.
Sentì per la prima volta i muscoli ardere, alimentati dal cuore e dai polmoni, e scoprì che quell’incendio, anziché soffocare i pensieri, li alimentava.
Sorrise scoprendo che la sua testa si accendeva assieme alle gambe e si lasciava cullare per chilometri dentro quell’ubriacatura, non pensando a niente, ma al contempo era come se in quei momenti sentisse tutto, vedesse tutto, sapesse tutto.
Mentre era cullato da uno di quei momenti sentì una voce dall’alto che lo chiamava.
Erano i suoi nuovi compagni che da qualche posto lassù lo stavano aspettando, facendo esercizi e indicando l’orologio. Si stavano raffreddando, era ora di ripartire. E poi quando era arrivato le regole erano state chiare, trentacinque chilometri e quattromila metri di dislivello al giorno, e lui gli aveva già fatto perdere, cronometro alla mano, settecentotrentasei metri di sviluppo e sessantasette si quota.
N. si scusò, li raggiunse e provò a contrapporre un sorriso ai loro mugugni. Ma non fece in tempo, non c’era mai tempo in quella corsa infinita verso chissà dove.
A quell’iniziale perdita di metri lineari e di dislivello se ne aggiunsero altre, e seppur N. riuscisse ogni volta a raggiungere il gruppo – che da quella prima volta aveva smesso di aspettarlo; finita la pausa prestabilita ripartivano e basta – capì in breve di non far più parte di loro.
Ancora una volta uscì dal sentiero, come si scavalca una recinzione, e dopo tanto tempo iniziò a camminare – non più a correre, solo camminare.
Incontrò altre strade asfaltate, altre mulattiere di ghiaia e di terra, altri sentieri, ma non li percorse mai se non per brevissimi tratti, il tempo di trovare un passaggio per saltare dall’altra parte; avanzando si può dire in orizzontale, perpendicolare alle vite degli altri; tagliando ogni volta le strade e le mulattiere e i sentieri seguendo una specie di terra di nessuno; prendendo e perdendo quota solo il minimo necessario, avendo cura che il suo incedere fosse più possibile a somma zero.
In questo suo vagabondare a volte gli capitava di vedere sopra di lui sagome lontane appese alle rocce, in fila di due, tre, massimo quattro, a volte anche qualcuno da solo, e si chiese chi fossero, e se avrebbe mai potuto unirsi a loro.
In qualche occasione li incontrò mentre a piedi si avvicinavano alle pareti, ma lo colpì subito il fatto che, pur camminando visibilmente più piano di lui, lo superavano.
Lui saliva spedito, spingendo più forte che poteva, dove possibile correva, ma ogni volta era più lento di loro.
Non c’era dubbio che la sua velocità fosse maggiore. Si vedeva dai movimenti, dal ritmo, dal fiato, da tutto, eppure quell’incantesimo si rinnovava ad ogni incontro al punto che N. si persuase che ci dovesse essere qualcosa nei loro gesti a lui invisibile, un’esattezza che permetteva loro di scegliere ogni passo ed ogni appoggio in modo da sovvertire le normali regole della fisica.
Provò ad imitarli di tanto in tanto, arrampicandosi sui molti massi che incontrava lungo la via, ma si accorse di essere goffo, impaurito, di nuovo in un luogo che non era il suo.
N. ne soffrì per un po’, qualche attimo o qualche giorno, poi capì che forse semplicemente quella non era la sua dimensione e, come ormai era abituato a fare, proseguì.
Un giorno – ormai erano passati anni da quella mattina in cui si era svegliato di fronte alla montagna, e poi ancora anni, due decenni forse, o giù di lì – mentre camminava per la sua terra di nessuno gli si aprì sulla sinistra un vallone, stretto e ripido, con in cima una forcella erbosa chiusa ai due lati da rocce verticali.
Da dov’era non riusciva a intravedere nessuno sentiero salire lassù, nessuna strada, nessun segnavia. Decise di tagliare lungo un ghiaione e provare ad avvicinarsi.
Dopo tutto quell’andare in orizzontale gli piaceva l’idea di tornare in alto, senza uno scopo particolare che non fosse quello di arrivare alla forcella e guardare dall’altra parte.
Lungo il ghiaione trovò dapprima una traccia di animali, e la seguì.
Poco più avanti incontrò una piccola piramide di sassi appoggiati con cura uno sopra l’altro, a cui poi ne seguirono altre.
Abituato ormai da molto tempo a sfuggire ogni indicazione subito ebbe un sussulto di rifiuto, quasi di paura, e meditò di tornare indietro.
Poi guardò la forcella sopra di lui, ora più vicina, vide il sole che illuminava quella cresta d’erba verso cui quei sassetti lo stavano guidando, e si decise a lasciarsi guidare.
L’ultimo tratto fu il più difficile.
D’altronde, si rese conto, quella era la prima volta che saliva sul corpo della montagna in verticale senza seguire una strada o un sentiero segnato, e quando non li aveva seguiti aveva scelto di evitare il più possibile i saliscendi.
L’ultimo tratto fu il più difficile.
Dovette farsi forza sulle mani per superare un piccolo salto di roccia. Si sorprese lui stesso, ma ci riuscì.
Ora la cresta erbosa gli si apriva davanti come una promessa, ancora illuminata da qualche traccia di sole.
Gli andò incontro di corsa, più forte che poteva, e di nuovo muscoli, cuore, polmoni diventarono tutt’uno con la testa.
Poi rallentò negli ultimi metri per godersi quello che avrebbe trovato dall’altra parte.
In cima si sedette, annusò l’erba, l’aria, le rocce.
Dall’altra parte vide altri valloni, altri boschi, altre forcelle, altre piramidi di sassi appoggiati con cura, fino all’orizzonte.
In quel momento sentì un rumore alla sua sinistra e si accorse di non essere solo.
C’era una ragazza, anche lei lì seduta sulla forcella.
La guardò, lei lo guardò, assieme guardarono quello che avevano davanti.
Poi, si sorrisero.
Gentile Fabio, il tuo racconto è molto bello e c’è molto da riflettere, credo che lo leggerò più volte.
Salve Luigino, mi fa piacere che le sia piaciuto, grazie mille.