Una ragnatela di percorsi, tracce e scorciatoie aveva smembrato il grande dosso, chiamato cresta Cermenati, vale a dire la via normale alla vetta della Grigna, che faceva da spartiacque tra il profondo e repulsivo canalone Caimi e l’altro più famoso canalone Porta; il quale sale ripidissimo fino alla base dell’obelisco chiamato Sigaro Dones. Mi fermai un attimo, sembrava che la mia curiosità si fosse placata. Sarebbe stato sufficiente fare dietro front, subito, adesso, e mai nessuno, tantomeno Ezio, si sarebbe accorto della marachella. Ma ormai era impossibile ritornare, volgendo lo sguardo trecento metri più in alto ebbi l’impressione che quel profilo tondeggiante fosse la cima. Un’illusione. Mi dissi che ero io piccolino: tutto è proporzionato alla propria statura, ecco perché la vetta mi appariva così lontana. Ripresi a camminare. Il sentiero mi costringeva a fare passi faticosi inerpicandomi sulla ripida traccia. Scivolavo e arrancando mi aiutavo con le mani, e ogni tanto guardavo su cercando la mia prossima meta, un altro dosso rotondo e ancora un altro, e un altro ancora.
Non volevo guardare indietro. La nebbia aveva risucchiato la valle, il cielo era cupo, sentivo le particelle umide posarsi sui miei vestiti leggeri; lottavo ormai con la fatica e la paura. Tutte le volte che il dubbio si insinuava sulla scelta fatta, riguardavo in alto e mi dicevo che non sarebbe mancato molto. Ma a che cosa?
Ho letto molte storie che raccontavano di spedizioni e di fatiche immani per raggiungere la cima di una montagna. Storie di grandi alpinisti. Ho sempre creduto che ognuno viva il proprio limite e la propria avventura alla pari di chiunque altro: che differenza c’era tra quella mia montagna e chi stava conquistando l’Everest?
A metà pomeriggio giunsi al colle poco sotto la vetta. Dall’altra parte un canalone ripido e pauroso precipitava verso nord, c’erano ancora rigole di neve dura. Mi accorsi di alcune catene fisse di ferro che rendevano più agevole e sicura la salita, indicando la giusta direzione. Il terreno si era fatto molto più rischioso, roccette di secondo grado mi si pararono davanti e allora mi venne in mente il basamento dell’Alpino; così, mani e piedi, presero il ritmo, applicai la mia esperienza tecnica e poco dopo mi trovai in cima alla Grignetta.
In piedi, impaurito, infreddolito e affamato feci un giro in tondo su me stesso. Capii che cosa voleva dire essere in cima, significava non avere null’altro intorno. Sopra di me c’erano alcuni grossi corvi neri che gracchiavano, pronti a portar via le briciole dei pasti degli escursionisti in vetta. Ben saldo sulle rocce con l’igloo del bivacco vicino, ero terrorizzato. Pensavo a quelle roccette da ripercorrere in discesa e pensavo che se mi fossi perso nella nebbia sarebbe stato un grosso guaio. Pensavo che avevo fatto una stupidata.
Ma quella era la mia prima cima e ne era valsa la pena. Una sensazione che provai spesso in futuro trovandomi in difficoltà, quando si faceva buio, quando il temporale rizzava i capelli per l’elettricità, quando solo il bivacco in attesa del mattino obbligava alla sosta.
Mi si avvicinò un uomo, e incuriosito mi chiese con chi ero.
«Sono solo, signore. Ho camminato fin qua senza sapere bene dove stavo andando».
Non era vero. Sapevo benissimo dove stavo andando, ed ero consapevole di quella mia scelta. Lui mi sorrise e mi mise indosso un’ampia giacca verde scuro, pesava ma sentii immediatamente il calore diffondersi su tutto il mio corpo, e poi mi diede un panino con il taleggio che divorai. Appoggiò lì vicino la borraccia con del tè bollente che mi diede energia per ridiscendere a valle.
Il più anziano di quel gruppetto di alpinisti (erano arrivati dalla cresta Segantini) mi legò in vita una corda. Dio mio, eravamo in cordata!