Sfiora il muro sconnesso fino a trovarne la porta – un tocco leggero, non d’orientamento ma d’affetto.
testo e foto di Davide Zambon / Padova
Hey.
Hey?
Apre gli occhi. La chiostra delle montagne, il prolungarsi della bancata di roccia rossastra sulla quale si trova, gli alberi e i prati, poco più sotto: tutto è privo di colori, fatto com’è di toni di grigio poco discosti tra loro.
Mentre dice la sua risposta si rende conto della pietra calcarea sulla quale ha sonnecchiato, le braccia dietro la testa, la schiena sul dedalo di piccoli solchi scavati dall’acqua.
Nemmeno qui? È bello, no?
Si tira su a sedere. Un pulsare sordo dietro al collo, avrebbe potuto perlomeno appoggiare la testa sullo zaino. I colori iniziano a ritornare negli occhi che si stanno abituando alla luce.
Grazie per la proposta, montagna. Ma ho altri programmi per oggi.
Ha preso a chiamarla montagna. Gli sembra appropriato.
Si tira su, oscilla impercettibilmente per lo sbalzo della pressione, sgranchisce spalle e mani, si carica lo zaino sulle spalle con un unico strappo. Una brezza leggera. Guarda verso sud: il dosso erboso dovrebbe trovarsi a meno di un’ora di gambe da lì. Stando ai progetti fatti sulla carta, lo avrebbe tagliato perpendicolarmente, poi sarebbe sceso alla meno peggio lungo l’altro versante, seguendo colate di erba, terriccio ed escrementi di stambecco fino alla traccia sottostante.
Due o tre valli prima, in una radura che come un occhio verde guardava dal dentro di un denso bosco, ha dormito fuori da una casera. L’acqua bolliva dentro un pentolino, il fondo annerito direttamente sul fuoco, il manico di bachelite sbreccato. Aveva versato l’acqua sulla polvere di caffè e spento la frontale. Restavano solo gli arabeschi arancioni delle faville.
Ti fermi qui? C’è legna in abbondanza. Il ruscello è a cinque minuti.
Silenzio. Rari scoppi del legno.
Non è questo il posto, ma grazie lo stesso.
Si era addormento sotto la volta stellata abbracciando il libro del bivacco, odoroso di un’idea di muffa.
Ha giusto qualche problema con l’ultimo salto di roccia. Ogni volta disarrampicare gli sembra difficile, ma poi in realtà funziona sempre. Non si azzarda a guardare giù, le braccia contratte, gli addominali a bilanciare l’ingombro dello zaino, i piedi a tastare appoggi.
C’è una fessura proprio lì.
Per qualche motivo non riesce a fidarsi. Non del tutto, almeno. Però sa che potrebbe. Dovrebbe. Sulla traccia, alla fine, ci arriva. Tira il fiato, beve un sorso d’acqua, si incammina verso est. Valuta di avere almeno tre ore di tempo ancora, poi il buio. Spera di non trovarsi nel nulla quando l’ultimo bagliore sarà sceso dietro quella cresta, ma il solco della valle è ancora lungo, e non ha idea se qualche anima infaticata, decenni prima, abbia piantato un riparo da queste parti. Ricorda un appunto trovato dentro un vecchio libro di arrampicate – una mappa vaga, senza scala, l’inchiostro diventato marrone, linee irregolari e tremolanti a segnare bivi ai quali non sbagliare.
Sfiora il muro sconnesso fino a trovarne la porta – un tocco leggero, non d’orientamento ma d’affetto.
Di ore ce ne mette sette. Ad un certo punto si era infilato in un’apertura nel bosco con l’idea di tagliare un lungo dosso e sbucare direttamente sui prati, milletrecento metri più in su. Il suono del torrente si era assottigliato alle sue spalle fino a sparire. Si era perso, affondando fino a metà polpaccio nel mare di foglie secche. Era scesa la sera, poi il buio. Aveva camminato in fretta, convinto di essere inseguito da un mondo animale feroce e predatorio, tenuto a distanza soltanto dal timido cerchio di luce della frontale, bagliore fin troppo coraggioso per la sua intensità. In realtà – lo sapeva benissimo – i bramiti non avevano alcun interesse in lui.
Comunque alla casera ci arriva. Sfiora il muro sconnesso fino a trovarne la porta – un tocco leggero, non d’orientamento ma d’affetto. Il legno oppone resistenza, grattando ancora una volta la soglia. Entra.
Dentro, quell’odore: chiuso, umidità, intonaco, fumo di faggio, generico animale. Scarica lo zaino sulla panca, armeggia sul ripiano di pietra, accende il fuoco. Passa in rassegna le minuscole mensole. Non che le provviste gli manchino, ma non si sa mai. Individua una lattina di fagioli precotti, scarta dei biscotti secchi sui quali ci sono i segni dei denti di ghiro.
Poi è notte ancora più fonda. Lascia penzolare i piedi dalla grande panca sospesa sopra al fuoco. Guarda le fiamme e si lascia andare ai ricordi. Quella volta che aveva dormito qui con Scudi, Lollo e Baggi. Incattiviti da una grappa industriale, avevano fatto così tardi che i bramiti, fuori, si erano spenti da un pezzo. Nella luce delle frontali, il terzo aveva continuato ad ammorbare il secondo con litanie politiche ripetitive e brontolanti, finché il primo era sceso dal soppalco, gli aveva rotto il naso con un unico e non annunciato pugno, e senza dire una parola si era infilato il giaccone ed era uscito. L’aveva ritrovato la mattina dopo, all’alba, quando era uscito per fare legna al limite del bosco. Oppure quella volta che la neve, fuori, arrivava fino alle finestre, e avevano dovuto liberare l’ingresso con la pala. Dentro non avevano trovato legna. Non avevano potuto mangiare niente, ma avevano vino in quantità.
Quanto era passato da quegli avvenimenti? Quindici, diciotto anni? Venti? Erano altre persone, era un’altra montagna. Era un altro anche lui.
Alla fine rimane a guardare le braci affievolirsi. Poi scende dalla panca, sale sul tavolo al centro della piccola stanza, si infila nel sacco a pelo e spegne la frontale. È confortato dalla scelta: lì sotto fa caldo, sul soppalco si sente già lo zampettare dei ghiri. Ha gli occhi pesanti per il fumo.
Qui.
No.
Qui ti piace. Lo conosci, questo posto. È tuo.
Non è mio. Lo amo, questo sì. Ma non è mio.
Si addormenta.
È mezzogiorno e mezzo, forse l’una, stando al calore dell’aria. Dalla forcella – una lama tesa tra due cime aguzze – guarda in basso: sa che deve scendere proprio per di là. La via è un dedalo di prati inclinati, ghiaie instabili, piccole frane, salti di roccia, le poche indicazioni ormai sbiadite. Osserva uno dei gradoni della valle interrompersi nel nulla, sa che lì il passaggio è uno solo, stretto e preciso tra i mughi, e spera che il redattore dei bolli abbia lasciato almeno uno dei suoi segni a scolorire nel sole. Più in basso l’avrebbe aspettato un profondo solco, l’acqua fragorosa, una sottile traccia a scendere sulla sinistra da riscoprire in mezzo all’erba alta fino all’ombelico, di sicuro infestata dalle zecche. Avrebbe bevuto dal ruscello, si sarebbe sciacquato la testa, avrebbe proseguito.
In quell’angolo che sembrava non aver mai conosciuto piedi né cartografie, forse non avrebbe sentito la sua voce.
Non aveva parlato, infatti, oppure lo aveva fatto così impercettibilmente che lui non se ne era accorto. In basso, dove l’acqua formava delle pozze – calme, cristalline, un invito a spogliarsi di tutto e immergersi – aveva percepito due cervi. Brucavano in una radura protetta dai faggi, ne aveva visto soltanto i quarti posteriori. Aveva deviato dal sentiero – silenzio reverenziale, respiro quasi trattenuto – per non disturbare, e aveva inforcato la traccia in discesa poco più sotto. Pochi minuti dopo, uno stambecco era esploso dalla vegetazione, aveva preso a salire la pendenza impossibile di un’antica frana ora inerbita, e in dieci falcate era scomparso.
In realtà – lo sapeva benissimo – i bramiti non avevano alcun interesse in lui.
C’è il bosco a proteggerti. Scendere dove puoi stare bene.
Risale il versante opposto della valle – senza problemi, questa volta – e si fa strada fino all’altopiano infinito.
Viene accolto dal vento freddo e da chiazze di neve residua sporca di limo scuro. Sa per certo che la pista si srotola tra i grandi massi, sale piano a zig-zag, scende di nuovo nelle doline, sembra scomparire dove la ghiaia la confonde. Gli unici colori, al di là del grigio, sono il blu profondo del cielo delle quattro di pomeriggio e il giallo timido di carta crespa dei primi papaveri di montagna. Cammina con passo veloce perché l’ultimo riparo è a sette, otto chilometri da lì.
Non sono posti per te, questi. Dovresti scendere più in basso, più giù dei mughi, dove ci sono acqua fresca e legna, legna in abbondanza, oh: e puoi stenderti sull’erba. Puoi pensare. C’è il bosco a proteggerti. Scendere dove puoi stare bene.
Sente la sua voce anche nel sibilare del vento. Tira su il cappuccio sopra il berretto di lana e chiude i pensieri e le percezioni in un silenzio ovattato, solo leggermente rimbombante.
Per entrare nel baito deve scrostare una lamina di ghiaccio incastrata sotto la porta. Gli si gelano le mani, non sente le dita dure e secche. Entra, si sbatte la porta alle spalle e si siede sul tavolaccio. Quando il sangue riprende a scorrere nelle dita quasi si contorce per il dolore. Sistema le sue cose. Il sibilo del vento cala: guarda fuori dalla minuscola finestra quadrata, probabilmente la notte sarà silenziosa.
Domani la lunga cengia. Spera di non trovare ghiaccio, ma fa in modo di non pensarci. Terrà comunque i ramponi a portata, in alto dentro lo zaino. L’acqua per un altro caffè si sta già scaldando sul fornelletto mentre finisce la cena – carne secca, un paio di fette di pane. Del caffè fa piccoli sorsi mentre sfoglia l’agenda bancaria che da quasi otto anni è il libro del bivacco. L’ultima firma – una coppia di alpinisti – risale a diversi mesi prima, ad altri traffici, altri giri e altre imprese: probabilmente la polvere da tagliare con gli sci, il ritorno a valle, le battute del rifugista, la stufa di maiolica rovente, un cane appisolato, piatti caldi, vino e grappe, caciara. Non è più attratto da quelle cose ma ora, in qualche modo, è come se gli mancassero.
Sulla cengia, domani, i suoi passi di uomo saranno probabilmente i primi che quel versante della montagna avrebbe sentito da anni. Prima di dormire si chiede se quella tozza guida di settant’anni prima, le pagine croccanti per le intemperie subite, sia ancora affidabile. Si addormenta.
Poi, è come uno di quegli strani sobbalzi che si fanno a letto quando arriva il primo sonno. O come riaversi all’improvviso dal sovrappensiero perché qualcuno ha chiamato il tuo nome. Solo che il suo nome è lo sbriciolarsi improvviso di una roccetta, il suo inclinarsi, il peso di uno scarpone e il riflesso involontario di spinta che ne accelera il movimento verticale e la fa staccare dalla montagna.
In un attimo sta sbattendo con il torace contro il bordo del sentiero e seguendo una specie di rovesciata all’indietro guidata dallo zaino. Una mano ad afferrare una cosa calcarea, aguzza, l’altra a conficcarsi nella ghiaia sottile. Pianta i piedi. Si ferma.
Sente lunghissima la cascata di roccette rimbalzare giù per la parete. È un bastone della pioggia che viene girato e rigirato. Ascolta il percussionista non accennare a smettere.
Poi c’è il silenzio.
Te l’avevo detto.
Eh.
Si tira su a forza, ma con estrema attenzione. Spazio per riprendere fiato non ce n’è, per cui afferra due appigli, chiude gli occhi, obbliga il respiro e il cuore a rallentare.
Inspirazione, inspirazione, espirazione. Inspirazione, inspirazione, espirazione. Ripete la sequenza alcune volte. Riapre gli occhi. Un piccolo brivido, poi tutto è calmo. Sotto c’è l’altopiano: il baito invisibile, mimetizzato sotto la grande roccia contro la quale è costruito, il percorso a dente di sega che sale sul ghiaione in ingannevole angolo di riposo, il tratto di cengia che ha già percorso. Altrettanto, di fronte a sé, ancora da percorrere.
Quando la traccia, un’ora dopo, si allarga ad un’ampiezza sicura,
E se non lo trovassi mai? E se non esistesse?
Non risponde.
Gli ultimi due giorni non riesce a raccontarli con chiarezza. Meccanici e confusi, come la delusione dopo una ritirata o come il ritorno a terra dopo un orgasmo – ancora non riesce a decidere la sfumatura giusta, ed è ogni volta così. La settima – l’ottava? – grappa gli prude in fondo al palato e nel bar semibuio sono rimasti in tre, mentre fuori un battente al di là della stretta piazza sbatte nel vento serale e forse potrebbe essere quello della sua cucina, e comunque si rende conto che dovrà fare provviste e rifare lo zaino quanto prima, solo farà più freddo, in alto, e si rende conto anche che nemmeno questa volta.
E’ proprio vero che la poesia si annida nelle pieghe della lingua, e che solo chi sa muoversi con cura, amore e rigore riesce a rivelarla. Come qui, in “Tracce non risolte”.
Laura, ammetto di avere due ansie (in senso buono) quando scrivo. La prima, è proprio il tentare di trattenere la lingua o lasciarla libera, a seconda dei momenti. La seconda, di riuscire a capirla e a dirla, la poesia del mondo.
Grazie.