Reportage

#67 5 VALLI PANDEPICHE

testo e foto di Vittorio Ramponi  / Bologna

31/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

5 valli pandepiche

di Vittorio Ramponi

Per chi vive a Bologna le 5 Valli sono una mano che con le sue dita ha solcato il paesaggio creando luoghi in cui si intrecciano natura, storia e storie. Idice, Zena, Savena, Setta, Reno. Da est a ovest sono queste le dita, sono nomi che a molti diranno poco o niente, ma sono nomi che nascondono straordinarie sorprese di paesaggi e storie che ancora sfuggono alla presenza della città su cui confluiscono.

Le 5 Valli sono anche un faticoso mountain bike trail che si svolge in un giorno. Non è una gara, non c’è classifica, non ci sono avversari. Solo compagni di viaggio, persone il più delle volte sconosciute che per un po’ condivideranno fatica, sconforto, speranza, emozioni. In quest’anno pandemico purtroppo non può andare così, ma si presenta l’occasione per percorrerla in perfetta solitudine.

Parto che è ancora buio. Pianoro scintilla nel nero con l’effetto di un autogrill sull’autostrada, non c’è traffico e mi immetto nel Savena, la prima valle, con le luci pubbliche che si interrompono. Davanti è proiettato solo il cerchio di luce del faro. In senso contrario un camion ruggisce nella notte.

Tutto intorno sussurrano mille voci di fantasma, sono bisbigli che escono dal groviglio delle storie sovrapposte al labirinto dei sentieri da percorrere. Capisco subito che saranno loro a parlarmi e sostenermi durante il percorso, sarà il viaggio a farmi da compagno di viaggio.

Verso Monte Adone arriva l’alba. Il disco infuocato fa presagire una giornata limpida e fresca, niente male come inizio. Sono nel Contrafforte Pliocenico, un mare fossile talmente vicino alla città da essere ignorato dagli stessi abitanti. Qui le ruote lasciano il solco su uno stato di sabbia che è una spiaggia vecchia di 5 milioni di anni. Nei pochi metri in cui è necessario spingere a mano vedo conchiglie fossili incastonate nei sassi, sono antiche ostriche che oggi nuotano in un mare di roccia verticale. Anche loro hanno una voce.

I sentieri diventano più difficili e l’umido della notte li ha resi scivolosi ed insidiosi, da qui passa anche la Via degli Dei, il trekking che collega Bologna con Firenze scavalcando i tunnel dell’alta velocità.

Dal minuscolo abitato di Battedizzo si entra nel Setta, la seconda valle, con il regalo di una delle poche discese rilassanti del percorso. Dura poco, le strade tornano a stringersi e a trasformarsi in ripidissime rampe. In contrasto al paesaggio da favola più in alto c’è Monte Sole con la sua terribile storia.

Al valico con Monte Caprara sono al punto più alto del percorso, ma la salita non ha alleggerito i pensieri: le case distrutte di Caprara, le croci del cimitero con ancora i fori di proiettile e la chiesa sventrata sono lì a due passi. Non si può fare finta, non si può ignorare.

Da qui si scende imboccando il “Sentiero del Postino”, il tratto più impegnativo del percorso. È una traccia ripida, sconnessa, sassi smossi, curve strette, umida. Il Postino ha un nome, Angelo Bertuzzi, e da questo sentiero consegnava le lettere agli abitanti delle piccole frazioni che oggi non esistono più. La voce del Postino che indica luoghi vuoti fra i boschi nominando i nomi delle famiglie uccise la ritroviamo in alcune testimonianze on line. 

Sono solo pensieri di un attimo. A metà della discesa Sperticano con la chiesa rosseggiante e la fontana coi pesci pronta a dissetarmi appare piccola fra gli alberi. Sembra lontanissima, ma in un attimo e senza capire come, è già alle spalle con le ruote che filano veloci lungo lo sterrato in lieve pendenza del Reno, la terza valle.

Il momento di astrazione termina sulla Passerella, un vanto turistico di Marzabotto a giudicare dalle cartoline d’epoca, da questo sottile lembo sospeso sull’acqua la stazione dei treni era raggiungibile dagli abitati al di là fiume. La tentazione di fare avanti e indietro su questa stretta piattaforma è forte, ma la strada è troppo lunga per poterselo permettere.

Alle porte di Sasso Marconi ci si trova stretti in una specie di forca caudina fra la ferrovia e la vertiginosa Rupe del Sasso. Esattamente sopra di noi le pietre crollarono. Era una notte di fine 800 e le famiglie dei cavatori furono travolte dalle rocce indebolite dagli scavi. Percorrendo la statale osserviamo distrattamente gli archi di pietra che oggi sorreggono il monte, la targa commemorativa annerita dallo smog non la notiamo, ma diverse foto testimoniano il reticolo di quelle abitazioni di povera gente che come tane penetravano nella pancia della montagna.

Il Reno è pervasivo e il piccolo ponte di Vizzano, sospeso come il ponte di Brooklyn per resistere alle piene e stretto come una strada di alta montagna, si svela di fronte a noi. La sua è una storia antica fatta di dinastie di barcaioli che per tanto tempo hanno traghettato persone, animali, merci da una sponda all’altra, è una storia di piene e guerre e anche di una rivendicazione sociale per permettere ai bambini di raggiungere agevolmente la scuola al di là del fiume.

Da qui si incontrano una serie di opere idriche che hanno fatto di Bologna una capitale mondiale preindustriale con mulini, filande, opifici. La presa dell’acquedotto romano ancora funziona ed è ad un chilometro di distanza, poi canali, chiuse, manufatti che resero la città addirittura navigabile. La voce del fiume mi ricorda delle navi di Bologna che sconfissero la Serenissima alle foci dello stesso Reno.

Ora il Reno si stacca da questa storia e si sale verso Monte della Guardia, il faro di Bologna, la Basilica di San Luca. Dal santuario inizia il porticato più lungo del mondo. 666 arcate senza interruzioni fino all’ingresso della città. Peccato che non lo posso percorrere in bici, ma a metà della discesa la strada lo interseca e così si gode della prospettiva degli archi. La strada ha anche una lunga storia ciclistica e nomi di grandi campioni sono tatuati a vernice sul terreno.

Il centro di Bologna segna circa la metà strada, le voci sono coperte dal rumore del traffico, ma qui basta lo sguardo. Portici, piazza e torri sono magnifici poi si entra in una dimensione astratta di non luoghi, un altro labirinto fatto di periferia e assurde piste ciclabili. Un dedalo di incroci e svincoli in cui l’attenzione è tutta assorbita nel seguire la traccia. Poi improvvisamente ancora l’acqua del Savena e le 5 Valli riprendono forma.

Controcorrente si sale entrando nel Parco dei Gessi, il territorio di Luigi Fantini, scienziato autodidatta, il “ricercaro” come amava definirsi. La sua voce mi racconta delle tante grotte da lui esplorate, come la Buca delle Candele che appare di fronte. Il paesaggio dei gessi con le ruote che scricchiolano sui scintillanti cristalli di selenite è un universo a sé, forse unico nel mondo.

Questo è il preludio alla Val di Zena, quarta valle, una zona selvaggia ed incontaminata che arriva alle porte della città, ma è solo un assaggio, un breve transito. La vera Val di Zena la vivrò molto più tardi completamente immerso nel buio.

Adesso si entra nell’ascetico paesaggio dei calanchi e Casola Canina è oggi solo un nome sulla mappa. Quasi nessuno sa della sua esistenza, ma era un importante centro abitato raso al suolo dai bombardamenti della guerra. Il bosco nasconde ancora i ruderi delle case e un piccolo cimitero sopravvissuto; non lo raggiungiamo perché poco prima scendiamo raggiungendo l’Idice, la quinta valle.

Sono alle porte del chilometro 100 e la fatica comincia a far male. Guardando le altimetrie devo ancora valicare quattro denti che sembrano montagne altissime. Vista adesso la tabella altimetrica è molto diversa dalla partenza, è amplificata. Qualcosa dai conti non torna e me ne accorgerò solo più tardi.

L’Idice distrae con una sterrata perfetta, bianca, senza buche che finisce quasi all’orizzonte convergendo ad un punto di fuga che raramente è visibile nelle strade appenniniche. È così che si entra nella Flaminia Minor, l’antica strada romana di collegamento fra Bologna e Arezzo.

La salita non è ripida, ma il basolato è tecnico e difficile da percorrere. La bici salta come un cavallo impazzito, si consumano molte energie a stare sui pedali e a questo punto del viaggio può essere un problema. Ho già percorso tante volte questa sterrata, ma mai con così tanti chilometri sulle spalle. La spensieratezza svanisce, scattare una foto diventa una scusa per fermarsi, scendere dalla bici diventa una liberazione. Anche se l’ultimo tratto è il più facile decido di percorrerlo a spinta.

La strada prende alcune deviazioni inaspettate, ho difficoltà ad individuare l’innesto del sentiero per un piccolo intrico di strade private e recinzioni. Un cancello deve essere aperto e richiuso ed i trattori hanno reso la discesa molto vibrata e difficile, si scende, ma non c’è alcun relax, non c’è alcun riposo.

Mi accorgo così di essere entrato nella valle del Sillaro, sesta valle delle cinque valli. Ecco cosa non tornava dell’altimetria! Impreco verso gli organizzatori, ma in fondo è un ringraziamento. Sdraiato in mezzo alla strada c’è un cane, l’ho incuriosito, si avvicina, mi annusa un po’ e torna a stendersi dov’era prima quasi annoiato. Sarebbe stata una bella foto, ma sono troppo stanco per scattare, ho molta fame e la strada è lunga.

Questo è il momento più grigio, le voci mi ricordano che proprio qui ci sono le Salse del Dragone, un curioso vulcanetto che erutta fango misto a petrolio e metano. Ricordo che raggiungerlo fu un’avventura di qualche tempo fa dove percorsi la stessa strada all’inverso. Con questi pensieri tengo duro e la salita finisce, ancora discesa non facile fino a Monterenzio dove c’è di nuovo l’Idice e un bar. Riesco a mangiare qualcosa e torna un po’ di energia.

Monte delle Formiche si chiama così perché ogni anno, a settembre, migliaia di formiche alate si danno appuntamento lì per la loro ultima danza nuziale. Dopo l’accoppiamento i maschi muoiono cadendo sul selciato della chiesa. È un giorno di festa, le formiche vengono raccolte, benedette e donate ai fedeli. È l’antichissimo rito di Santa Maria Formicarum che ha origini precristiane. Le 5 Valli sono anche un viaggio nel mistero.

In vetta il sole è già sceso ed è necessario riaccendere il faro, il single trek nel bosco fatto alla luce artificiale assume un’emozione del tutto nuova, ai lati le ombre sono mostri pronti ad azzannare. Riesco a rimanere sempre in sella, forse il buio fa vedere le difficoltà più attenuate.

È così che entro di nuovo in Val di Zena e la salita verso Livergnano è l’ultima, non la più dura, ma la più lunga. Monte delle Formiche è un puntino luminoso, il suono delle sue campane si unisce al sorgere di una luna quasi piena e questa emozione dà una grande spinta al mio arrancare.

La fatica è insopportabile e anche se il GPS indica una pendenza del 2% sembra di scalare la più ripida delle montagne. Livergnano con le sue luci e le case innestate nella pietra si rivela come un paradiso. Di fronte al piccolo museo della Linea Gotica scavato in una grotta c’è l’ultima fatica: uno strappo violento, il diaframma da rompere prima della discesa finale. Il museo non racconta solo di guerra, ma anche la vita di Luigia Gubellini, una donna scienziato in anticipo sui tempi che proprio qui portò alla luce la collezione di foglie fossili più grande al mondo.

Ora è solo discesa. Sulla strada bianca normalmente liscia vedo alcune pietre aguzze che non dovrebbero esserci, le schivo, ma si muovono di scatto! Sono uccelli che non riconosco, sono posati a terra e appena la ruota si avvicina schizzano in volo sfiorandomi la faccia forse accecati dal faro. L’episodio si ripete, non è casuale.

Nell’ultimo tratto di asfalto capisco che le 5 Valli sono un serpente che si morde la coda, non finiscono qui, ma continuano nel tempo. A due passi dalla finta fine mi sento come Alex, un Girardengo un po’ più basso e rock, di un romanzo che vi lascio indovinare. Se gli vedete gli occhi bagnati non è un pianto, è solo la velocità.

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foto:
1. Flaminia Minor, la nervosa strada romana.
2. Un mare verticale si affaccia su Bologna.
3. Sorge la luna su crinali e storie delle 5 Valli.

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Vittorio Ramponi

Vittorio Ramponi

Amo esplorare le frontiere sotto casa. Un universo spesso sconosciuto che vive fra le pieghe della quotidianità e che amo chiamare "Estremo quotidiano". Il senso dell'avventura credo che si racchiuda tutto qua: non rassegnarsi al noto e trovare la forza, anche per un attimo, di uscire dai propri confini dell'abitudine.


Il mio blog | Appennino blues parla di "Estremo quotidiano". Col pretesto di proporre itinerari e mappe racconto di avventure incredibili che tutti possiamo vivere sotto casa. Sullo sfondo c'è l'Appennino, meravigliose montagne che soffrono di bellezza non banale.
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