Il cielo nero ci lascia il tempo di mangiare e fotografare, si inserisce persino in qualche scatto, è vanitoso il cielo nero. Ci guarda come i cieli neri guardano gli uomini sotto di loro da tempo immemore, con distaccata superiorità e disinteressato cruccio, poi si avvicina un po’ a dirci, in via del tutto eccezionale, che sarebbe tempo di andare, e lo fa a suo modo. Lo fa spedendoci come messaggero un lampo giallo che squarcia il cielo seguito, pochi istanti dopo, da un lugubre tuono che ci indica la via, quella verso il basso.
Sono le 14.00. Abbiamo iniziato a camminare poco dopo le 9.00 e lo abbiamo fatto per 14 km salendo per 1700 metri.
E questa è la fine, ma torniamo al principio.
Erano le 7.00 del mattino quando C è salita in auto mascherina munita nemmeno fosse una rapina (lei ha l’ultimo dpcm al posto del cuore) e dopo due ore, un giro al negozio di alimentari di Varzo con l’ormai consueto piacevole distanziamento sociale, un caffè covid free a un baretto di San Domenico, iniziavamo a camminare alla volta del cielo nero, che a quel tempo era ancora blu.
Salivamo al Ciamporino, un alpe dal nome abbastanza sgradevole, almeno per i miei gusti, passando sotto la seggiovia e lungo le piste da sci, raggiungendo questo angolo di montagna violentata da impianti di risalita e brutture varie. Soprassedendo a fatica alla polemica estetica seguivamo il sentiero che verso l’alpe Veglia, immersi in un caldo assurdo nonostante i quasi 2000 metri di quota, proseguiva pigro lungo il sentiero a mezza costa dove incrociavamo escursionisti (troppi escursionisti) di ogni fattura provenienti dagli impianti e diretti per lo più alla piana.
Seguivamo il sentiero che portava all’Alpe Stalaregno prima, poi al Pian di Scric e a quello dal gioioso nome di Sass Mor e infine mettevamo piede al Pian d’Erboi sotto le bastionate del Piodelle, Helsenhorn, e compagnia. Da qui, riempite le borracce in una fontanella apparsa a sorpresa, ci dirigevamo verso il bivio che riportava alla piana passando dal bel Lago Bianco.
Lì, circa un centinaio di metri sopra, a destra, e scenograficamente ben posto, se ne stava immobile un bivacco color rosso. Sfortunatamente il nostro sentiero proseguiva davanti a noi verso il Passo Boccareccio e quindi, invece di andare al suo cospetto a porgere i regolari omaggi, come si attendeva, siamo passati oltre limitandoci a salutarlo. Non siamo stati ricambiati.
Sono un poco suscettibili i bivacchi, soprattutto quelli rossi e scenograficamente ben posti.
Ma dopotutto che diamine, eravamo a 2200 metri e in poco meno di 3 km ci aspettavano ben 900 metri da fare, una specie di vertical insomma, quindi non avevamo tempo di portare i nostri omaggi al bivacco, nemmeno a quello rosso, nonostante, non so se l’ho già evidenziato, se così fosse perdonatemi, fosse scenograficamente davvero ben posto.
Salivamo dunque lungo il sentiero erboso ripido a stretti tornanti. Sulla destra, ormai quasi alla nostra altezza, il bivacco rosso ci guardava ancora con astio, ma noi piegavamo a sinistra mettendo piede sulla dorsale che prometteva di raggiungere la base della sovrastante gialla Torre Vitali e alla fine l’abbiamo perso di vista. Alla base della Torre abbiamo traversato verso sinistra per poi innalzarci a destra seguendo i segnali e le corde di ferro penzolanti e che hanno visto di certo momenti migliori. Infine, dopo alcuni gradini e qualche facile passaggio su roccette ci siamo affacciati sul lunare Passo Boccareccio.
Alcuni piccoli pilastri di cemento ci avvisavano però che quella non era la Luna, ma solo la Svizzera.
Proseguivamo verso destra stando attenti a non oltrepassare i confini italiani (questa è una cretinata, abbiate pazienza) mettendo piede sull’affascinante distesa di sfasciumi della nostra montagna spostamentosa fino su alla cima e a quel che veniva descritto all’inizio di questo racconto.