Reportage

#51 SI VIVE SOLO DUE VOLTE

testo e foto di Alberto Gandiglio  / Pecetto torinese (TO)

24/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

Si vive solo due volte

di Gandiglio Alberto

Sentite questa teoria. Dati un universo infinito e un tempo infinito, tutto accadrà. Ciò significa che tutti gli eventi sono inevitabili, compresi quelli ritenuti impossibili. E questa è una valida spiegazione per la mia storia.

Il protagonista è il Rocciamelone, Re della valle di Susa e La Mecca per chiunque si accontenti di utilizzare soltanto le gambe per giungere sulle cime. Nei weekend di bel tempo si può trovare davvero una vastissima varietà di personaggi, dai trail runner, in gara col cronometro, ai mariti, in gara col ritorno dalle mogli per pranzo.

La prima volta che ci andai avevo compiuto da poco 10 anni, salii con i miei genitori e mio zio Giuseppe a dormire al rifugio Ca d’Asti con la speranza di salire in vetta l’indomani. Non si può capire cosa significhi il Rocciamelone per mio zio se non lo si guarda negli occhi mentre racconta le infinite giornate passate a correre sui suoi pendii, è come un’amante segreta, la raggiunge ogni qualvolta senta il bisogno di stare con qualcuno che lo capisca senza neanche parlare. Lì passai la mia prima notte in rifugio, i ricordi si fermano a pochi elementi: la luce fioca, i letti a tre piani, le pesantissime coperte di lana e il rumore del vento contro gli infissi metallici. Ironia della sorte quello fu il primo due di picche che ricevetti dal Rocciamelone, l’indomani ci svegliammo infatti in mezzo a nuvole cariche di pioggia che ci obbligarono a girare i piedi verso valle.

Passarono 13 anni prima che ci tornassi, 23enne mi stavo timidamente avvicinando alla montagna e giungere in cima dopo aver superare due chiazze di neve nei tratti di corde fisse mi fece già sentire un grandissimo alpinista. Ritornai altre tre volte, tutte in inverno e tutte senza lieto fine, a causa o del maltempo o dell’eccesiva quantità di neve.

Poi finalmente una soddisfazione, sci-munito (in entrambe i sensi) salii insieme ad un amico la domenica di Pasqua a tarda sera. L’indomani, accompagnati da un’alba incredibile, giungemmo a colpi di piccozze alla vetta tanto agognata. Ricordo perfettamente quel momento in cui calzammo gli sci, la gioia dell’essere giunti fin lì era stata subito offuscata dal terrore della difficile e ripidissima discesa, certe volte, infatti, le difficoltà iniziano solo una volta arrivati in cima. Il pendio era però un biliardo rivestito di un firn primaverile incredibile, difficile trovare condizioni migliori, non restò che far scivolare i nostri assi sino alla nostra automobile, tra gioia e sollazzi. Cosa spinga a rinunciare ad una bella grigliata con gli amici per andare a patire il freddo e rischiare le piume sulle montagne non è facile da spiegare, ci si può provare, avvicinandosi magari, ma mai si arriverà a trovare una spiegazione oggettivamente valida. E’ più l’amore per la montagna, o il bisogno di evadere da una società consumista che vuole uniformarci? Chi lo sa.

Il Rocciamelone mi ha fatto compagnia anche nei frequenti periodi in cui avevo bisogno di stare solo, o meglio, appena fuori dal gregge. Partivo presto la domenica mattina e mi inerpicavo sulla simpatica cresta Sud, immediatamente a ridosso della via normale, e da lì, mentre scalavo, mi divertivo ad ascoltare i discorsi della gente che dai sentieri proprio non vuole uscire, che ha la necessità di stare sulle tracce battute, in montagna come nella vita. Persone che un po’ ho sempre invidiato, che si limitano a percorrere i binari che nella nostra società portano ad una vita stabile, sicura e, in ultimo, forse felice, passando sempre per le solite stazioni: famiglia, lavoro e magari un hobby non troppo impegnativo. Sicuramente tra le loro priorità non vi è il lusso, o forse la distrazione, della curiosità, del domandarsi se non ci siano altri binari in grado di portarci alla felicità attraverso altre stazioni.

Proprio da quella cresta, immerso nei miei pensieri, ebbi modo di scoprire il versante Sud-Ovest, immenso e selvaggio come pochi ne avevo visti. Ero stufo di mettere le mani dove le mettevano già tutti, di ripetere le solite classiche, avevo bisogno di mettermi alla prova, di sperimentare sensazioni nuove. Il versante Sud-Ovest era ciò che cercavo, una parete immensa, larga 3 km ed altrettanto alta, dove vi è un solo itinerario aperto nel 1928 da una guida alpina ed ex gestore del rifugio. La misera relazione recita la seguente frase: “Via sconosciuta e forse mai ripetuta. Itinerario riservato ad alpinisti completi in grado di padroneggiare le tecniche di arrampicata su roccia e ghiaccio e in grado di orientarsi su pareti di grandi dimensioni”.

In men che meno organizzai la partenza con mio cugino Gaza, compagno di cordata da sempre, e Marco, fonte infinita di energie positive e ottimo scalatore. Ci incamminammo sui verdi prati sopra La Riposa a fine novembre, qualche centinaio di metri più su, però, madre inverno si era già posata abbondante. Dopo ore a vagabondare per questo impressionante labirinto verticale, su un terreno estremamente delicato e impegnativo, le energie mentali vennero a meno, avevamo guadagnato si e no 100 metri di dislivello in tutta la mattinata. Ci sentimmo come Davide contro Golia, infinitamente piccoli e impotenti, ma qui neanche a giocare d’astuzia avremmo potuto far nulla contro il nostro gigante. L’unica opzione era portare a casa la pelle, una ritirata sulla via di salita era un’opzione da scartare, non restò che uscire superando ripidi nevai e difficili fessure intasate di ghiaccio sulla cresta Sud, che ci accontentammo di risalire fino in vetta, dove arrivammo stremati fisicamente e mentalmente. Eravamo in cima, ma il Rocciamelone ci aveva vinti un’altra volta.

Sono passati 3 anni da quel tentativo, ed eccoci qui, 1000 giorni dopo, 1000 giorni in cui ho praticato l’alpinismo che voglio io, principalmente di ricerca ed esplorazione umana e geografica. Finalmente mi sento di nuovo pronto a ritentare quella parete, consapevole di ciò che mi aspetta. Purtroppo mio cugino non ci sarà, ma Marco si, e con lui Pietro, affidabile e sincero, ottimo gregario per questo genere di imprese. Il ritrovo è antelucano, ma quando mi incontro con gli altri alle prime luci di un nuovo giorno, ho due sorprese, Pietro ha deciso di portare la sua ragazza, Ardita, e Marco un amico, Enrico. Entrambi i nuovi imbucati sono provetti scalatori, ma ben poco né sanno di alpinismo, sarà un “simpatico” battesimo il loro.

Giungiamo al rifugio Ca d’Asti carichi come muli, ci imbraghiamo ed entriamo nella parete attraversando di corsa i primi 300 metri, i più pericolosi per le scariche di sassi, tutto tace per fortuna, il Rocciamelone sembra tranquillo. Iniziamo ad usare le mani sulle prime rocce, il terreno tra un torrione e l’altro è delicatissimo e ripidissimo, quanto di peggio si possa immaginare: permafrost ricoperto da un sottile strato di ghiaia. Una placca totalmente liscia ci sbarra la strada, dobbiamo calarci, aggirarla alla base e proseguire. Pianto due chiodi e mi appresto a calare il primo dei miei compagni, questo passaggio è cruciale, so che una volta discesa la placca tornare indietro sarà impossibile, mi fermo a pensare un attimo, ma so già la risposta: “oggi ce la faremo”. Il gruppo è affiatato e abbiamo ancora molte ore di luce a disposizione, andiamo! Dopo 4 ore guadagniamo finalmente il centro della parete, scaliamo 200 metri di placche che si stanno facendo via via più rotte e verticali, sbagliare non è più un’opzione e legarsi è sicuramente la cosa più saggia. Su un piccolo terrazzino inclinato formiamo le cordate, viste le difficoltà che ci aspettano capisco che l’unica opzione è fare una grande cordata da cinque. Io mi legherò in testa, seguito da Marco, che mi assicurerà, ed Enrico, al quale saranno legati con l’altra mezza corda, Pietro ed Ardita. Faremo in modo di procedere al massimo in tre alla volta per poter avere, nel peggiore dei casi, almeno una sosta solida in mezzo a noi.

La mia mente è lucida, sono estremamente presente a me stesso, concentrato, convinto che usciremo, che sarà una bella scalata, che la parte più pericolosa è passata. La parete si fa verticale e si inizia a scalare per davvero, sono costantemente alla ricerca del percorso migliore, e come mille altre volte, lascio che sia l’istinto a guidarmi, alcune lunghezze di corda sono esteticamente stupende, altre, orride e terribilmente insidiose. Le parole che ci scambiamo sono pochissime: pietra, sosta, molla tutto, parto. I pericoli, invece, numerosissimi: sassi che precipitano continuamente, soste precarie e arrampicata spesso su roccia davvero pessima.

In momenti come questi numerose sono le domande che si palesano nella mia mente, una su tutte: Perché? Ecco, in momenti così, distrutti nel corpo e nell’anima da ore di scalata su pareti pericolosissime, forse anche noi alpinisti perdiamo per un attimo il senso di ciò che facciamo, Mi guardo intorno e non vedo nulla di divertente, solo sguardi stanchi pieni di preoccupazione e paura. In questi istanti però, capisco davvero ciò che mi manca, i miei genitori, la mia ragazza, qualche amico, il mio cane e il tramonto dalla finestra di casa. Forse è per questo che veniamo qui, ci allontaniamo il più possibile dalla vita per poter capire ciò che ci mancherebbe se la perdessimo, e proprio mentre siamo qui, a scambiare la nostra esistenza con qualcosa di impalpabile, inutile ed indimostrabile, sentiamo tutta la voglia che abbiamo di continuare questa vita, di farla di nuovo nostra.

Dove tutto perde senso, improvvisamente, lo ritrova, è un paradosso, ma è così. Arriverò in cima perché voglio rivedere le persone care, il tramonto, mangiare una pizza con gli amici e leggere un libro. E ogni volta pensiamo tutti le solite stronzate: “Non farò mai più gite così pericolose”, ma in cuor nostro sappiamo che non sarà così, come il bambino che dice alla mamma che non lo farà più solo per essere graziato una volta ancora. Quando smetteremo per davvero nessuno può dirlo.

Riprendo la lucidità che sembrava persa e scalo con più energia di prima, delle pietre che mi schivano non mi preoccupo neanche, ormai so che usciremo di qui, il desiderio è troppo forte. Solo chi ha vissuto avventure del genere può capire cos’abbia provato una volta sbucato a pochi metri dal santuario di vetta, solo chi è andato così vicino al confine con la morte può capire quanto valga e sia davvero meravigliosa la vita. La montagna ci ha voluto bene oggi, il merito di essere ora tutti e cinque qui abbracciati e commossi non è di certo solo nostro, ma di chi ha deciso di lasciarci passare indenni. Che sia un Dio, degli spiriti di persone care o semplicemente il destino questo non ci è dato a sapersi.

Era inevitabile arrivassimo in cima, era una storia scritta, ma questo non potevamo saperlo mentre eravamo attaccati come formiche ad una parete immensamente più grande di noi. C’è chi ci giudicherà incoscienti, irresponsabili e forse avrà ben donde di pensarlo, ma so che c’è chi capirà, chi capirà che ogni tanto, durante la nostra esistenza, si senta il bisogno di mettersi in gioco, di capire per davvero cosa renda straordinaria questa vita, ovvero, la sua estrema fragilità. E si allora, si vive per davvero solo due volte, una quando si nasce, e l’altra quando si guarda in faccia la morte.

Ma ora basta tormentarsi, immaginateci solo lì, abbracciati in vetta, con gli occhi lucidi e un sorriso di gratitudine sulla faccia.

_____
foto:
1. Io e mio cugino in cima al Rocciamelone durante il primo tentativo della parete Sud-Ovest.
2. Tiri di corda nella parte mediana della parete.
3. Ultimi tiri di corda a fianco dell’orrido colatoio che si origina dalla vetta.

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Alberto Gandiglio

Alberto Gandiglio

Sono Alberto Gandiglio, alpinista e amante di qualsiasi cosa si possa definire avventura. Scrivo non di ciò che faccio, ma dei motivi per cui lo faccio, così magari, un giorno o l'altro, anche mia madre capirà che non sono un aspirante suicida, ma semplicemente un viaggiatore alla ricerca dei limiti umani, non in termini fisici, ma in sensibilità e profondità


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