PRIMA DI NOI
Il Grande Romanzo Americano Italiano
Qualche estate fa mi rivolsi ad un tizio, aveva un piccolo banco sotto l’ombra di un tiglio, per ricostruire l’albero genealogico della mia famiglia. Mi rimase in mano solo una pergamena fintoantica con uno stemma araldico. Immagino identico per decine di altri allocchi come me.
Leggere Prima di noi di Giorgio Fontana[2] è come scorrere con le dita, con attenzione e curiosità, la bella immagine di un autentico e solenne albero genealogico: quello della famiglia Sartori. Prima di noi è la lunghissima storia di una famiglia friulana, montanara, contadina, milanese, comunista, borghese, ferita, felice, ingannata e, infine, di nuovo, friulana.[3]
Le radici dell’albero sono piantate nel 1917 salendo poi per quasi cento anni e quattro generazioni. Maurizio Sartori, fante, disertore appena ritiratosi dietro il Tagliamento, sposerà, non subito e non bene, Nadia Tassan, friulana come lui e unica cosa che non odia a questo mondo. Insieme daranno vita ad uno splendido romanzo che ti prende per mano e ti porta avanti nel tempo, fino al 2014, su quell’albero, incontrando i loro figli (Gabriele, Renzo e Domenico) e i figli dei figli (Eloisa, Davide, Diana, Libero) e i figli dei figli dei figli (Dario, Letizia). Tanti personaggi che prendono vita nel libro di Fontana alternandosi, passando il testimone uno con l’altro, senza mai che la lettura possa rallentare. Una storia circolare che parte dal Friuli, scende a Milano e ritorna al casale dove tutto era cominciato.
La zona attorno al paese era punteggiata di cascine abbandonate. Letizia cercò di immaginare come doveva essere il casale dei Tassa, ormai disabitato, magari distrutto.
Un firmamento di vite comuni che galleggiano tra i rigagnoli della Storia e dell’Economia italiana ricavando amare sconfitte (o effimere vittorie). I Sartori: una famiglia che si fa da sé e che riesce pure a disfarsi da sé.
Prima di noi non ha colpi di scena o roba immaginifica buttata lì per i circoli di lettura ma dentro ci sono tempi e luoghi allineati in modo perfetto e ogni nome che incontriamo, importante o meno che sia, che arrivi all’inizio del libro, che lo attraversi per intero, che viva solo una manciata di righe, diventa nostro. Nostra è Nadia Tassan, la moglie di Maurizio, gentile e sprezzante, presente dalla prima all’ultima pagina, capace di disegnare, di dare baci e di trattenere la morte.
Maurizio e Nadia si sposarono nella parrocchia di don Alfredo, e poi fecero una festa con il violinista e il suonatore di fisarmonica[4], risero e mangiarono le braciole di maiale e i ravioli e si ubriacarono e ballarono come se fossero felici e puri.
Nostro è Davide Sartori, nipote di Maurizio, scampato alla poliomielite, ingegnere mancato, promessa del pugilato e, finalmente, fotografo geniale: Porterà il nome della famiglia e la sua bellissima Sophie in giro per il mondo per poi tornare a bere grappa in vecchi bicchieri di vetro piangendo suo padre Gabriele.
Iris Berni, che rappresenta, disinvolta e un po’ puttana, lo specchio di una sinistra, borghese e distante dal mondo operario degli anni ‘60 mai veramente compresa da questi ultimi, incomprensione che renderà fallimentare il comunismo di entrambe le caste. Anche lei è nostra e persino la Edda, Bortoluzzi, uscita da un romanzo di Fogazzaro che finirà sotto le ruote di una carrozza e Luciano Ignasti, un Garrone che tutti vorremmo come amico. È nostra la strega Elsa Winkler, a cui Nadia si rivolge, che anticipa uno dei tanti fili rossi che attraversano il romanzo.
Quello che faccio funziona attraverso la sofferenza, perché è l’unica misura autentica dell’amore. Ciò che muove il cosmo materiale e immateriale. Purtroppo molto altro dolore aspetta tutti noi, senza eccezione.
Filo rosso che Letizia, anche lei nostra, lei che voleva essere felice, l’ultima ad entrare in scena, è capace di riannodare nelle ultime pagine del romanzo, questa volta come una eroina austeniana, disincantata e ferita come lo sono i giovani della generazione nata sul finire degli anni ‘80.
(…) la sofferenza era regolata da un principio di conservazione. La sofferenza si conservava proprio come l’energia. I loro nonni, e in una certa misura i loro padri, avevano dovuto sopportare il dolore fisico, (…) e ora che questo dolore era terminato, a loro spettava un destino di ferite interiori.
Ma su tutti è più nostro il Meni, il Domenico, il figlio più fragile e più amato da Nadia, santo e martire della famiglia Sartori, un Dostoevskji friulano che cercherà Dio ma troverà prima i demoni, poi un profeta e infine la morte. Un ragazzo che ha qualcosa di prodigioso: unico in mezzo a tanta violenza, sofferenza e lotta nel rinunciare a tutto ma non al Bene.
“Come ti chiami?”. “Domenico Sartori”. “Sei veneto? Hai l’accento veneto”. “Friulano”. Il Profeta si sedette di fianco a lui. “Perché hai accudito quell’uomo?”. Domenico alzò le spalle. “Era un criminale (…)” “Non si meritava comunque di morire così” “Lo pensi davvero?”. “Si”. Il Profeta lo guardò intensamente.
Nelle geografie di Prima di noi c’è tanta Milano, la Milano che rinasce dai bombardamenti, quella degli scioperi, delle rivoluzioni finite, dei canali e delle periferie, dei capannelli di giovani neri ma è il Friuli ad essere sempre in prospettiva. Le parole in friulano, cemût, mandi, fruts (che bella la parola frutti per dire figli), tajut, basoâl, cjalcjut e le prime poesie di Pasolini permetteranno a tutti i Sartori di sentirsi uomini in mezzo alla Storia:
“Come mai non incontriamo nessuno?”. “Perchè i lombardi vanno ai laghi e non capiscono la montagna”. “Ma noi si”. “Noi si”. “Noi capiamo la montagna” “Si”. “Quindi peggio per loro”. “Esatto” disse Gabriele.
Il Friùl, le montagne, le cascine, la neve, le rive del Piave, forse per questo che dopo cento anni raccontati perfettamente[5], con un gesto che vuole lenire il tanto dolore che la vita ci riserva, Giorgio Fontana decide che sarà la pietà a chiudere la storia per quelle creature. Un capolavoro.
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