Sagome scure di monti, custodi della notte.
testo di Aronne Pel, foto di Giordano S. / Feltre (BL)
I ricercatori sedevano sotto un cielo buio trapunto di stelle. Attorno a loro stavano i membri del piccolo villaggio; al centro, la famiglia della guida spirituale.
I riflessi del fuoco illuminavano i volti, piccole faville di tanto in tanto si sollevavano in alto, sospinte dal leggero movimento del vento. La nera foresta, ai piedi della grande montagna, ascoltava raccolta le loro parole.
«Ci fu un tempo in cui le montagne erano luogo sacro. Non si osava scalarle, perché le loro cime erano il confine con il mondo degli spiriti, erano dimora delle divinità. Ma non si sentivano spinti, a quei tempi, gli uomini a raggiungerne le vette: la loro vita, i loro bisogni, le loro ricerche non richiedevano tali esperienze. L’esistenza seguiva leggi dettate dalla sopravvivenza, e queste erano connesse al rapporto con il soprannaturale. L’etica e le scelte si richiamavano ad esso».
«È così: solo pochi osavano ritirarsi nei luoghi più in alto. A loro spettava sondare la voce dell’immateriale. Lo scopo non era l’esplorazione fine a sé stessa del mondo fisico, bensì l’ascolto del trascendente per dare risposte alle necessità quotidiane».
«Già… E gli uomini vissero così per millenni, finché la visione del mondo maturò, dapprima lentamente, poi sempre più velocemente col progredire degli sviluppi tecnologici e delle conoscenze in tutti i campi dell’esperienza, fisica, psichica, spirituale».
«Chissà cos’è la maturità della conoscenza», rifletté il saggio. Queste furono le sue uniche parole, quella notte.
«Poi fu il fiorire della sperimentazione, dell’esplorazione del mondo. L’uomo circumnavigò le terre, si spinse, nel tempo, sempre più verso territori inospitali ed inesplorati. E negli ultimi secoli anche l’impervio mondo delle cime divenne terreno di scoperta e ricerca. In quel momento di passaggio, chi viveva la montagna per necessità finì per divenire guida di facoltosi avventurieri che volevano raggiungere per primi le vette inviolate».
«Quel mondo inaccessibile non era più sede di divinità: ma l’uomo nella sua sete di conoscenza si spingeva lì per cercare un riflesso del divino dentro di sé».
«Più il riflesso del potere e dell’affermazione di sé, direi», affermò una ricercatrice. «Alle volte mi pare che il vostro desiderio di conquista sia un modo per sfogare quell’aggressività che vi portate dentro».
Sagome scure di monti, custodi della notte.
«Allora, dovremmo dire che ci portiamo dentro tutti, maschi e femmine, visto che la storia dell’esplorazione delle montagne contempla anche figure femminili», ribatté un ricercatore.
«Secondo me, non è solo una questione di conquista ed affermazione di sé. C’è dell’altro: bisogno di sapere… ricerca di qualcosa… Comunque, condivido alcune riflessioni. Sapete, l’ascesa verso la vetta riguarda aspetti particolari, che mi interrogano. La montagna è da sempre simbolo delle aspirazioni più elevate, il luogo di incontro col divino appunto o, come potremmo dire oggi, con la bellezza, con qualcosa che infonde significato alla vita, con la ricerca di sé. É luogo dalla conformazione che si restringe sempre più verso un unico punto sommitale da cui si può osservare l’orizzonte sconfinato; è luogo che si percorre in verticale, muovendosi con incessante fatica contro gravità; luogo che tanto più si innalza, tanto più è inadatto alla vita umana: i ghiacci, i venti, le temperature insopportabili, le pareti nel vuoto. Ecco, nonostante tutto questo, l’uomo è richiamato lassù, ma l’ascesa è ardua, tanto più dura quanto più la montagna che attrae è racchiusa nel suo mantello inviolabile. E, per toccarne la vetta, l’uomo deve mettersi alla prova, sfidare i propri limiti; così, in questo sforzo estremo, spesso finisce per seguire parti di sé impure, egoistiche, egocentriche: l’orgoglio, lo sfoggio delle proprie capacità, la sfida col prossimo. Quell’ascesi diventa percorso di grandi tentazioni».
«Forse è quello che avviene in ogni ricerca di sé stessi… Esplorando le parti di sé più recondite ci si imbatte nei propri demoni, e le lotte spesso sono terribili».
«Una ricercatrice che mi fu maestra diceva: “Alle volte, per trovare sé stessi, è necessario attraversare oceani di angoscia”».
«Esteriormente la scalata è un andare in alto: di riflesso può divenire una discesa nel profondo di noi stessi».
«È così… E chi invece resta nella pianura? Nel mondo ospitale, conosciuto, accogliente? Qui non ci sono sfide di conquista, o meglio possono riguardare altri campi delle sfere umane. Qui, continuando nella precedente chiave interpretativa, ci si muove in orizzontale, senza sforzi. Il mondo dei bisogni è agevolmente soddisfatto. L’uomo non è costretto a toccare i propri limiti, a meno che non vada a cercarli in altri modi. Eppure, in questa dimensione di accessibilità e facilità, l’uomo sperimenta altre forme che lo portano ad elevarsi: la relazione col prossimo, l’amore, la condivisione, l’empatia».
«È vero, siamo fatti per la relazione».
«Già, siamo esseri sociali, psichicamente formati per trovare noi stessi davanti al volto dell’altro».
«E allora cosa cerchiamo nelle cime?».
«Da sempre grandi ricercatori hanno cercato la verità nella solitudine: tra le grotte dei monti, isolati dal mondo sociale, esplorando la propria interiorità, scoprivano lì il senso del vivere».
«O si perdevano, nelle voragini dei propri abissi».
«Ogni ricerca del limite comporta grandi rischi».
«Qualcuno, invece, trova il senso nella semplicità della propria quotidianità».
«Ascesa verticale o avanzata orizzontale, appunto».
In quel momento i ricercatori tacquero riflessivi. Il silenzio avvolgeva la foresta. Nessuna voce di animale, nessun fruscio di vento.
Anche le fiamme del fuoco sembravano ondeggiare più lentamente, come in meditazione.
Pareva di sentire la presenza della montagna, incombente sopra di loro, che ascoltava i loro pensieri, accogliendoli come una madre osserva i bimbi nei loro giochi.
Prese la parola la giovane figlia della guida spirituale. Era una figura fresca, nel fiore dell’adolescenza.
«Quand’ero piccola passò qui un uomo del vostro mondo. Anche lui amava le montagne. Gli piacevano i bambini e si fermava spesso a giocare con noi. Ricordo ancora una storia che raccontò una sera».
Anche la natura interroga le stelle?
Aloni di luce all’orizzonte.
C’era una luce che splendeva sempre sulla cima di una montagna. Splendeva giorno e notte e tutti erano affascinati. Volevano raggiungerla, per capire cosa fosse e come facesse a brillare continuamente.
Ma la cima era circondata da enormi ghiacciai, pareti impossibili da scalare, baratri nel vuoto. Era completamente inaccessibile. Tanti uomini avevano provato a raggiungerla, ma nessuno ci era mai riuscito. Molti erano venuti anche da lontano, dalle regioni più distanti, ma tutti avevano fallito.
La gente osservava dal basso quella luce così splendente e provava un senso di struggimento a non poterla avvicinare, e a non poter sapere cosa fosse.
Passava il tempo e la luce era sempre lì.
Una sera, però, accadde qualcosa, e alcuni giovani pastori, persone semplici ma dall’animo genuino, tornarono al villaggio gridando: «Ehi, siamo arrivati sulla cima del monte, abbiamo visto la luce!».
«Com’è possibile? Non mentite!”, dichiararono increduli gli aduli. “Non si può scalare quella montagna! È impossibile!».
«Non sappiamo come vi siamo giunti. Avevamo perso una capretta, e cercandola l’abbiamo ritrovata sulla vetta! Ma… come facciamo a spiegarvi cosa sia luce? È qualcosa di indescrivibile, solo vedendola si può capire cos’è!».
«Se state dicendo la verità, domani ci porterete lì», affermò un uomo in vista del paese. I pastorelli annuirono, ma l’indomani giunti alle pendici del monte trovarono solo pareti verticali, inviolabili.
«Ecco, ci avete mentito! Sarete puniti per questo!», dichiararono alcuni abitanti. Altri però tacquero, osservando, colpiti, un chiarore speciale negli occhi di quei giovani pastori.
Ma questo non fu l’unico episodio. Di tanto in tanto qualcuno tornava al paese, affermando che inaspettatamente, spinto da una necessità autentica, aveva raggiunto la luce della vetta. Non gli era possibile però riferire cosa essa fosse, e quale fosse la via di accesso. Questi finivano sempre per non essere creduti, anche se qualcuno restava colpito dalla luminosità che si irradiava dai loro volti.
Così continuò a trascorre il tempo, finché nel paese giunse una terribile carestia, che mise in ginocchio la popolazione. Girò voce che spingendosi verso l’alto del monte si sarebbero potute trovare erbe e animali da cacciare per salvarsi. Le settimane successive tutti si recarono verso la montagna, senza più pensare di raggiungere la luce, ma solo sperando di trovare una risposta alle loro autentiche necessità. Chi partì da solo, chi con la famiglia, chi in grandi gruppi.
Ebbene tutti, in quei giorni, giunsero sulla vetta e poterono ammirare la luce che vi splendeva da sempre.
E lì ognuno, finalmente libero, trovò ciò che cercava.
Così la giovane terminò il racconto.
I ricercatori tacevano increduli, con le lacrime agli occhi.
«Dunque, il nostro amico, tempo fa, è passato per questo villaggio. Sono anni che lo cercavamo senza averne traccia. Amava raccontare questa storia. In essa percepiva la chiave della sua ricerca», disse commosso uno di loro.
Tutti tacquero.
Il silenzio e l’oscurità parvero farsi più profondi.
Presto però, nel buio che li avvolgeva, in alto, lontano sopra le loro teste, dalla vetta della grande montagna giunse, come una stella, l’intenso brillare di una piccola e calda luce.