Everest, 1924. Quota incerta. Mallory o Irvine?
testo e foto di Alessandro Carletti / Lesignano Bagni (PR)
Il destinatario sulla busta ero indubbiamente io, anche l’indirizzo corrispondeva, nonostante il civico sbagliato (io abito al 59). Il mittente, in parte scolorito, era qualcosa come José Luis Fonrouge, nome che non mi diceva niente.
Ma ciò che più mi colpiva era la data, impressa in lunghi segni rossi di penna stilografica: 18 gennaio 1968. Quella fragile busta in carta gialla aveva navigato a lungo sulle tormentate acque dell’oceano del tempo per approdare, dopo un viaggio di quarantatré anni, nella mia cassetta della posta. A confronto quella di Darwin sul Beagle era una breve uscita domenicale. Il solito disservizio delle Poste, per la felicità del quotidiano locale. Una cosa però non tornava: io nel 1968 ancora non ero nato, e non ci sono omonimi in famiglia. Posai la busta ancora sigillata sulla scrivania e digitai il numero della redazione di “The Great Outside”, rivista per cui scrivo da qualche anno.
«TGO – chi parla?».
«Riconobbi la voce».
«Ciao Michael, sono Alex, posso chiederti un’informazione al volo? So che sei la persona giusta…».
Michael O’Shea, redattore capo, massimo esperto di storia dell’alpinismo e alpinista lui stesso, con all’attivo prime salite in Sudamerica e Canada.
«Se posso…».
«Ti dice niente il nome José Luis Fonrouge?».
«Certo, fortissimo alpinista argentino, autore di grandi vie sulle cime della Patagonia. Nel ’65 ha aperto la famosa Supercanaleta sul Fitz. Perché?».
«Niente, è un pezzo su cui sto lavorando, nelle ricerche è saltato fuori il suo nome. Grazie, eh! Prezioso come al solito».
«Ti mando una biografia. Saluti».
Aprii la busta, fragile e sbiadita. Il testo, in un inglese scolastico, era breve e diretto.
Egr. sig. xxx,
mi permetto di scriverle in quanto alcuni dell’ambiente mi hanno parlato di lei come di persona scrupolosa e competente in materia di andinismo (o alpinismo che dir si voglia). Alcuni giorni fa ho incontrato a El Chalten una cordata di rocciatori nordamericani che rientrava da un tentativo (interrotto per forte vento) alla Torre Egger, una nuova via sulla parete sud. Tra una birra e l’altra i tre mi hanno raccontato di un particolare: dall’ultimo bivacco in parete, forse duecento metri sotto la cima, hanno intravisto una macchia rossa, piccola, vicino a un’altra marrone (uno zaino?), sulla parete di fronte, parzialmente nascoste da una lama di roccia. La est, capisce?! Del Torre…
Non so, veda lei se può servire a qualcosa. Le montagne a volte parlano. E il vento, in Patagonia, porta lontano le voci.
Con stima,
JLF
Everest, 1924. Quota incerta. Mallory o Irvine?
L’8 gennaio atterrai con volo di linea a Buenos Aires, poi un charter prenotato dalla rivista per cui scrivo mi portò a El Calafate. Da lì in quattro ore, a bordo di un autobus sgangherato come quelli dei cartoni animati, arrivai finalmente a El Chalten. Quattro case colorate in mezzo al niente, con un vento teso e continuo a rompere il silenzio. Al pub “The wall” incontrai le tre guide andine con cui avevo preso accordi nei giorni precedenti. Raccontai della lettera, poi il più anziano dei tre, l’unico che parlasse un poco d’inglese, stese una vecchia carta del parco sul tavolo di legno, mi indicò il percorso per la Laguna Torre, e su per il ghiacciaio fin sotto la montagna. Sulla foto alla parete accanto al tavolo tracciò col dito l’ipotetica via degli americani sulla Egger, e con un colpetto segnò sulla est del Torre il punto approssimativo.
La mattina seguente partimmo poco dopo l’alba, il cielo era limpido e in due ore arrivammo al campo Bridwell. Montammo le tende e proseguimmo sul ghiacciaio. Al campo Niponino la vista del Torre, magnifico e terribile nel suo slancio verso il cielo, mi spaventò. Lasciammo in un luogo riparato il materiale alpinistico per il tentativo, le previsioni erano discrete. Sulla via del ritorno al campo base il cielo improvvisamente si coprì, un vento gelido cominciò a sferzare i nostri passi, mi voltai un’ultima volta prima di chiudermi nella tenda, il grido pietrificato sembrava sul punto di abbattersi, come un albero colpito da un fulmine, la cima avvolta da nuvole nere. Non chiusi occhio finché alle 3 di notte le guide mi chiamarono per partire.
In un’ora arrivammo al deposito, le guide si attrezzarono per la salita, zaini leggeri, per un rientro in giornata, un rapido cenno di saluto e via. Trovai un posto riparato dove scavare una piccola truna, accesi il fornelletto e preparai il caffè, infilandomi al collo la cinghia del binocolo. Guardavo su, oltre le prime rocce, oltre la crepaccia terminale, oltre quei diedri impressionanti, oltre l’ombra scura del fungo, lassù le stelle scintillavano come diamanti nella notte che lentamente moriva.
Molto più in basso, nel buio della parete, li vedevo salire lentamente alla luce delle lampade frontali, il freddo intenso mi costringeva ad alzarmi ogni mezz’ora per riattivare la circolazione, ma ormai era giorno fatto e presto i primi raggi sarebbero arrivati a darmi conforto.
Verso mezzogiorno mi scaldai una minestra sul fornelletto mentre col binocolo cercavo di attraversare il denso mantello di nebbia che ormai avvolgeva la montagna, poi mi raggomitolai nella truna, chiuso nel sacco a pelo e nei miei pensieri scuri. Vedevo una sagoma barcollante muoversi sul ghiacciaio, chiamava un nome, la voce gli si spezzava di continuo. Poi vedevo due, tre figure curve sorreggersi a vicenda, camminare come ciechi nel vento che sollevava polvere di neve. Mi svegliarono rumori di ferraglia, il familiare tintinnio degli imbraghi carichi come alberi di Natale. Era pomeriggio inoltrato, il cielo sempre più coperto prometteva altra neve. Tornavano. Il capo cordata mi disse poche parole circa la salita, accennò un sorriso e mi porse una sacca.
«L’abbiamo trovato».
Afferrai lo zaino, lacero ma ancora intero. Lo aprii e cominciai a rovistare, spezzoni di cordino, qualche chiodo, un viaggio nel tempo tra quelle povere cose sopravvissute agli anni e all’avvicendarsi di sole torrido, pioggia e valanghe. Le valanghe. Le sentivo ruggire alle mie spalle, poi silenzio quasi assoluto, nero come il cielo, e ancora, ancora quel suono sordo, terribile, e una polvere gelida che arrivava dopo pochi istanti a cospargere il mondo.
«E la cosa rossa di cui parlavano gli americani?».
«Ah già …».
E mi porse un berretto di lana cotta, rosso e arancione, con paraorecchie che terminavano in due treccine sfrangiate. Come quelli che usano i peruviani, pensai.
Quando le dita sfiorarono, sul fondo dello zaino, un oggetto freddo e squadrato, il cuore quasi mi si fermò. Era una macchina fotografica, di quelle compatte con la custodia in due parti agganciata con un bottoncino. Sembrava la mia mirrorless, ma proveniva da un tempo remoto. Aveva attraversato estati e inverni australi, ignorata da centinaia di spedizioni alpinistiche, come una promessa che resiste caparbiamente ai dubbi. Comet II, inciso sul frontalino. Una cometa abbarbicata sul Torre.
Storie, tracce, istanti perduti nel vento.
Una settimana più tardi, nello studio di casa, un pacchetto mi guardava dalla scrivania. Esitai, guardai dalla finestra. Nevicava. Le strade erano già bianche, una luce pallida mangiava i contorni delle cose. Lo aprii.
«La maggior parte è da buttare, ma qualcosa ho salvato. Fammi sapere. M.».
Un bigliettino scritto a matita anticipava il contenuto. Le prime tre erano indecifrabili, bianco e grigio indistinti, un’ombra davanti all’obbiettivo, forse un dito o una moffola. Poi la vidi. Sgranata, sfuocata. Una figura umana di spalle, una sommità di neve, altre cime in lontananza, molto più in basso.
Pensai al Torre nel ‘59, a quei due piccoli uomini, soli e stremati, nel cuore della tempesta, nel grido di pietra. Egger e Maestri nella notte della speranza. Nel ritorno. Quell’immagine era il presagio di una vita. Pensai ancora una volta al berretto peruviano. Mi asciugai gli occhi e continuai. C’erano altre figure, ma a fatica riuscivo a collocarle nello stesso contesto. Sembravano immagini differenti, come uscite da un vecchio baule dimenticato nella soffitta di un alpinista. Poi capii. Anche se non era possibile. La più nitida sembrava arrivare dagli anni ’20 del secolo scorso.
Un uomo saliva un ripido nevaio appoggiandosi alla piccozza. Everest, 1924. Mallory e Irvine. In un’altra, quasi una polaroid, un uomo su una vetta altissima, come l’Himalaya vertiginoso. Lhotse, 1990. Fantasmi. Contro cui il vento e il freddo si erano accaniti cento, mille volte. Una volta tornati, la società degli uomini aveva completato l’opera. E altre ancora, tante. Storie, tracce, istanti perduti nel vento.
Richiusi il pacchetto, lo riposi in fondo al cassetto della scrivania.
Uscendo di casa, mi avvolse un vento gelido, il termometro diceva meno dodici. Agganciai gli sci e cominciai lentamente a risalire la mulattiera della val d’Ambiez. Aumentavo il ritmo, sentivo l’aria fredda entrare nei polmoni, dalla bocca uscivano dense nuvole di vapore. Cercavo la fatica, come ho sempre fatto per vincere la tensione. Per schiarire i pensieri. Arrivai al “Cacciatore” quasi senza accorgermene, e affrettai ancora il passo. Il vento era diminuito, la neve scendeva ora lenta e a larghe falde, un mondo di silenzio mi si svelava. Poche tracce di animali, poi solo il bianco e le pareti di roccia così familiari. Al rifugio Agostini mi fermai per un sorso di tè, e via di nuovo. Giunsi ai piedi della parete che il cielo cominciava a scomparire, la notte avanzava a passi svelti. Cercai un segno qualunque, una traccia. Trovai un vecchio chiodo. Guardai in alto, la via seguiva un evidente colatoio, a stento si vedeva cima d’Ambiez, molto più in alto. Presi dallo zaino il libro di Armando Aste, cercai la pagina e lessi le righe a commento della relazione.
“Da voi ho saputo, amici, che questa è la Via della Concordia. Qui è il suo valore più umano e più grande, qui la sua maggiore bellezza.”
Mi siedo su una pietra e lentamente mi guardo attorno nella luce del crepuscolo. Il vento si è calmato. Tempo, finalmente, di tornare a valle. Chiudo lo zaino, indosso la frontale e comincio a scendere leggero, quasi senza peso, nella quiete del mondo.
Mi ha fatto viaggiare e tornare in posti mai dimenticati.