testo e foto di Alberto Paleari / Gignese (VB)
Chiamatemi Oreste, sono il prestanome di uno che scrive storie di montagna, sì insomma, l’espediente letterario che gli serve a raccontare in prima persona vicende di cui non vuole essere al tempo stesso protagonista e narratore.
Con lui ho qualche affinità e una gran confidenza, potrei dire, se avessi la sicurezza di esistere fisicamente, di essere il suo amico per la pelle, o, per usare il suo linguaggio colorito, che noi due siamo culo e camicia.
Quest’anno a inizio ottobre mi disse:
«Ti vedo un po’ pallido, perché non vieni una quindicina di giorni in Sardegna con me e Wanda? Ci prendiamo l’ultimo sole, facciamo i bagni, andiamo a scalare nel Supramonte di Baunei».
Ho pensato subito: vedrai che a scalare non andiamo, ormai è cotto, quest’estate non si alzava sul 5c, finiremo tutte le sere in qualche bettola a rimpinzarci di culurgiones e a sfinirci di Cannonau. Però di stare a casa da solo non avevo voglia, tanto più che mi avrebbero di sicuro lasciato il cane da curare: prestanome va bene ma anche dog sitter mi pareva troppo.
Così partimmo. Il vecchio ubriacone, Wanda, io e il cane. Ci imbarcammo a Livorno e scendemmo a Olbia. La Sardegna ogni volta che ci torno mi sembra più bella: quelle rocce, quei colori, i grandi spazi vuoti, gli altopiani popolati di capre, vacche stente, maiali e cavalli bradi, le codule che scendono fino al mare, le calette rocciose, le spiagge di sabbia bianca lunghe chilometri, gli olivastri, i fichi d’india, i corbezzoli, l’aria asciutta e balsamica, quel cielo, le nuvole, gli arcobaleni … e c’è più roccia che in tutte le Dolomiti.
Da Olbia abbiamo preso l’Orientale sarda, che a Dorgali si addentra in mezza costa nella valle di Oddoene fino al passo di Genna Silana, da lì siamo scesi a Baunei: in centocinquanta chilometri abbiamo incontrato tre paesi. Dopo una notte in quattro nella cabina della nave che sembrava la cella di un carcere e i centocinquanta chilometri di curve dell’Orientale sarda eravamo stanchi morti, lo scrittore, che aveva guidato per tutto il percorso, è andato a dormire senza neppure pranzare, Wanda ha fatto una pastasciutta, che abbiamo mangiato sul terrazzino, poi ci siamo messi sulle sdraio a leggere e sonnecchiare.
Quando lo scrittore si è svegliato è uscito anche lui sul terrazzino e senza preamboli ha detto:
«Voglio tornare a casa».
Tra Genna Silana e Baunei la strada per Teletotes
Io e il cane siamo rimasti di sale, come se avessimo visto un fantasma, Wanda invece ha subito reagito:
«Sei matto? Abbiamo pagato quindici giorni di affitto anticipato e so solo io la fatica che ho fatto a prenotare il traghetto per il ritorno. E poi, proprio tu, che te la tiri di essere un ecologista, hai idea di quanto carbonio abbiamo messo nell’atmosfera tra la benzina e la nafta della nave per rimanere qui solo un pomeriggio?»
Lui disse che gli era venuto in mente un racconto ma lì non lo poteva scrivere, gli mancavano il Mac e la soffitta in cui aveva la postazione di scrittura:
«È come per i sogni», aggiunse «se non li scrivi appena ti svegli svaniscono».
«Ma se hai portato apposta la Moleskine», disse Wanda «fai come due anni fa nel Peloponneso no? Laggiù sulla Moleskine hai scritto quasi un romanzo».
«Il Peloponneso era più adatto, vi sono sepolte le ceneri di Chatwin», rispose lo scrittore «la Moleskine l’ho usata in omaggio a colui che vi scrisse “In Patagonia”».
«Dai, almeno provaci no?» dissi io conciliante «prova a rimanere qualche giorno, se proprio non riesci a scrivere noleggiamo un Mac».
Non so come, ma accettò, per una settimana andammo a scalare tutte le mattine, anche se mai più di tre tiri al giorno. Al pomeriggio scendevamo in spiaggia a Santa Maria Navarrese: lui si sedeva davanti al mare con la Moleskine in mano, vestito di tutto punto e con lo Stetson di paglia in testa, noi facevamo il bagno, camminavamo sulla battigia, prendevamo il sole. Una volta che dimenticò la Moleskine sul tavolo della cucina l’aprii per vedere che cosa aveva scritto: niente, era intonsa.
Fino a qualche anno fa, pur senza essere una cima, a scalare se la cavava ancora, adesso sembrava aver perso la voglia ed era diventato pauroso: prima di arrampicare controllava il nodo due volte, poi si voltava e diceva a Wanda che l’assicurava:
«Guarda se dal Gri-Gri la corda esce dalla parte dell’omino».
Da quanti anni arrampicavano insieme? E ancora non era sicuro che lei usasse il Gri-Gri nel modo corretto.
Un giorno il padrone di casa ci raccontò che a Triei, un paesino di pianura a cinque chilometri da Baunei, si faceva il miglior Cannonau della Sardegna. Quel pomeriggio dovemmo per forza andare a visitarlo. Sembrava uno di quei paesi addormentati delle favole, tutto era in ordine come per l’arrivo degli abitanti, ma gli abitanti non arrivavano. Finalmente in piazza della chiesa trovammo un bar aperto, alcuni anziani si gustavano la placidità dell’ora seduti ai tavoli sotto il pergolato. Credevo che lui volesse assaggiare subito il Cannonau ma disse che era meglio dopo cena, prima voleva vedere la campagna e la vigna. Salimmo in macchina e prendemmo la strada per Ardali: c’era una pace, una vegetazione lussureggiante di canneti, agavi, fichi, sughere, poi, nelle conche tra una collina e l’altra, cominciarono i vigneti di viti vecchie, basse, nodose, contorte. La vendemmia era finita e le foglie erano già rosse e accartocciate, il cielo era blu scuro e il sole di metà ottobre picchiava come da noi nemmeno ad agosto.
Pedra Longa
La galleria arborea in cui lo scrittore e il cane svanirono
Il prodigio avvenne al tramonto, eravamo andati a vedere una falesia sulla dorsale che unisce il Monte Oro al Monte Scoine, dove volevamo arrampicare il giorno dopo, sospesi tra l’arco perfetto del golfo di Arbatax a sud e la guglia rocciosa di Pedra Longa a nord.
Nel punto in cui il sentiero si addentrava in una galleria di corbezzoli Wanda disse allo scrittore di andare avanti col cane, che li avrebbe fotografati. Io per non disturbare mi misi dietro, ma essendo più alto vidi tutto: dopo il clic i due fecero ancora qualche passo e usciti nel sole svanirono.
Non credevo ai miei occhi, Wanda rimase un attimo come pietrificata poi si mise a correre lungo il sentiero. Nella radura dopo la galleria arborea cominciò a guardarsi intorno, nel frattempo ero arrivato anch’io. Non c’era nessuno.
«Dove sono finiti?» le chiesi.
«Quel bastardo se l’è svignata col cane,» rispose lei, poi cominciò a chiamare:
«Spit, Spiit, dove sei? Spit, Spiit, vieni che andiamo a casa a fare la pappa, vieni amore, vieni dalla tua mammina».
Né Spit né lo scrittore risposero. Restammo fin che non venne buio e tornammo alla macchina soli, al chiaro di una mezza luna crescente.
Nella caserma dei carabinieri di Baunei l’appuntato di guardia a cui denunciammo il caso ci chiese:
«Telefonnettero?»
«Telefonnettero cosa», domandò Wanda dopo un breve smarrimento per la bizzarria lessicale.
«Al latittante».
Non avevamo chiamato e lo facemmo subito, il telefono suonava ma non rispondeva nessuno. Arrivò il maresciallo, ci disse che stava organizzando le ricerche. Dopo due ore vennero i battitori con le jeep, le fotocellule, le torce elettriche, i cani e mezzo paese che voleva aiutare.
Girammo la montagna tutta la notte e al mattino arrivarono gli elicotteri e altri volontari a darci il cambio, così per cinque giorni. Misero posti di blocco (si temeva un rapimento ma nessuno chiese il riscatto) furono stampate le foto dei due dispersi e diffuse nei TG regionali, sui giornali locali, nei municipi e nei supermercati. A fine settimana i carabinieri ci dissero di andare pure a casa, restare era inutile, se ci fossero state novità ci avrebbero avvertito. L’appuntato, che dall’inizio aveva solidarizzato con Wanda, disse che era un caso evidente di abbigeatto:
«Suo maritto il cane l’ha ormai venduto all’estero».
Invece no. Due giorni dopo, arrivati davanti al cancello di casa, ci accolse l’abbaiare festoso di Spit che in giardino saltò addosso a Wanda leccandola in faccia, si mise a girare intorno alla casa a grandi balzi, si rotolò nell’erba e si buttò a terra per farsi grattare la pancia. Wanda non era in sé dalla gioia, rideva, piangeva, lo accarezzava, lo baciava sul naso chiamandolo con nomi così dolci, con espressioni d’amore così appassionate che riferite a un cane è imbarazzante raccontare. In casa c’era odore di stantio, il lavello era pieno di piatti sporchi, ovunque bottiglie di Cannonau vuote, dalla camera da letto dei coniugi veniva il russare fragoroso dello scrittore.
Wanda vi si diresse, io per discrezione mi ritirai al piano superiore. Salii nella soffitta in cui lo scrittore ha la sua postazione, accesi il Mac e digitai la password (Oreste). Nei file recenti ne trovai uno chiamato “Il prestanome”, lo aprii, cominciava con queste parole: “Chiamatemi Oreste, sono il prestanome di uno che scrive storie di montagna…”.