testo e foto di Andrea Carta / Vicenza
Calda e afosa mattina d’estate: mi sveglio prestissimo, zaino già pronto per fuggire dalla pianura e raggiungere una coppia di amici con i quali vado ogni tanto a esplorare sentieri nascosti, dimenticati, ma che sono diventati parte della Storia.
Non sempre conosco la meta in anticipo ma poco importa, mi fido, abbiamo la stessa curiosità e fiuto esplorativo, quindi mai una delusione, anzi, sempre piacevoli scoperte. Anche in montagna la Storia ci ha lasciato grandi insegnamenti, basta camminare in silenzio e guardare con attenzione (e rispetto).
Questa volta andremo attorno al Monte Oregone, oltre le sorgenti del Piave, un po’ di qua e un po’ di là del confine. La giornata è splendida, non c’è una nuvola, solo un venticello fresco, anche troppo per essere alla metà di agosto.
Durante la nostra esplorazione dentro e fuori da trincee e caverne, giocando a nascondino con le marmotte, si rincorrono i ricordi di precedenti esplorazioni e accenni a prossime mete. D’improvviso spunta il nome di un luogo molto solitario che loro hanno già esplorato, fuori dalle rotte escursionistiche: me lo suggeriscono con timidezza spiegandomi sommariamente l’itinerario. Monte aspro e possente, un secolo fa temibile fortezza che sputava piombo su tante giovani vite.
# Il disagio di una guerra assurda #
La sveglia non aveva ancora suonato ma come accadeva da tempo, troppo tempo, Maska era già desta: una profonda tristezza stava mettendo a dura prova la sua esistenza, quella strana sensazione come quando si sale lungo una esile cresta innevata, in bilico: da una parte la libertà, dall’altra la solitudine.
Aveva cercato di uscirne, in tanti modi, in tutti i modi, anche condividendo il disagio con altri (rari) amici (veri) o con fantasiose speranze e incerte soluzioni.
Ogni tanto emergeva un po’ di stimolo per mettersi a cercare una nuova via ma il più delle volte, invece, sprofondava.
# Il disagio di una vita confusa #
L’indomani gli amici non potevano rimanere, avevano un altro impegno: un po’ indeciso penso ad una nuova meta dove poter andare da solo (ci sono abituato). Ma perchè non proprio là dove mi hanno indicato loro? Non potevo perdere l’occasione di questi pochi giorni di ferie e la curiosità premeva forte: le poche parole degli amici avevano già scritto l’itinerario nella mia testa, restava solo un po’ d’incertezza per un percorso a me sconosciuto e non facile, assolutamente isolato e senza punti di appoggio. Ormai la decisione è presa: ci vado.
Il primo sole di un’altra giornata splendida e senza una nuvola mi riscalda mentre risalgo gli oltre settanta tornanti del sentiero di guerra che porta allo spallone. Qui, ancora in piedi e abbastanza ben conservata, c’è la casermetta che ospitava il presidio austro-ungarico addetto alle manovre della possente teleferica che, in tre lunghissime tratte, superava oltre mille metri di dislivello per trasportare viveri, munizioni e quant’altro necessario per sopravvivere lassù: un balcone in posizione dominante, panoramica e assolutamente strategica.
# Cercando… #
Doveva fare di più, qualcosa fuori dal normale, di impossibile.
In ogni caso partire, andare via o con quei pochi amici o da sola.
Tentò di coinvolgerli, ma quel giorno loro erano presi da altre faccende o non avevano ancora raggiunto la convinzione che era giunta l’ora di partire, di iniziare la ricerca.
Lei invece aveva capito.
Una strana sensazione si faceva largo poco a poco tra i suoi pensieri, come una piccola luce in fondo alla strada buia e nebbiosa: era il momento giusto, «alzati e parti, vai, nulla è impossibile!».
Così, in una domenica d’autunno che si prospettava pesante e senza senso,
Maska fuggì dalla nebbia angosciante della pianura e della sua vita, dirigendosi verso i monti mossa da un grande desiderio: «Voglio vedere l’invisibile».
# Desiderando… #
Rudo il suo nome e anche il suo aspetto. Apparentemente, come tante altre, è “solo” una montagna ma dentro di sé conserva una parte importante di testimonianze e ricordi che ti infondono sensazioni uniche, profonde, brividi impossibili da provare altrove: sofferte imprese di una guerra assurda in contrasto con un ambiente così affascinante che uomini comandati dovettero trasformare per molti mesi nella loro angusta casa per combattere altri uomini e le forze della natura, a quelle quote, anche d’inverno.
# La montagna come teatro di imprese tragiche #
«Ma dove sarà la mia meta, il mio monte?»
Dovrà essere un luogo isolato, quanto basta per immergersi in un’altra dimensione, superiore e senza impedimenti, ma allo stesso tempo di una bellezza profonda, da farti sentire parte di un qualcosa più grande.
E dove, quindi, se non tra le altitudini in questo tempo rese ancor più affascinanti dai tenui colori dell’autunno.
Accendi i fari, accelera, rallenta, c’è nebbia, non si vede nulla, svolta, cambia strada, cominciano i tornanti, si sale.
Le faceva compagnia il buon Eraclito: «Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare».
# La montagna come luogo di ispirazione e ricerca #
Poco oltre la casermetta la traccia sale un po’ scomoda e poi prosegue lungo una cengia, attraversando alcuni pendii ghiaiosi. Ma non è questa la mia via: la meta indicata dagli amici è un’altra, molto più in su, ma sembra nascondersi, irraggiungibile. Le indicazioni sono state sommarie, da esploratori abituati a procedere “a vista”, quindi devo orientarmi un po’ e cercare. Un paio di canali sembrano praticabili e conducono ad alcune forcelle ma da qui sotto non si può vedere con certezza quale sarà quella giusta: l’unico modo è sceglierne uno e tentare (si può sempre tornare indietro…).
Un po’ di fiuto mi aiuta e la scelta cade su quello che poi si rivelerà l’unico percorribile. Il terreno è comunque friabilissimo, franoso, evidentemente non ci passa nessuno, o quasi. Ravanando non poco riesco a raggiungerne la sommità: una forcella isolata, aerea, da cui non sembra facile proseguire, anzi, non lo è proprio. Da un lato c’è un impressionante parete che sbarra l’accesso, dall’altro una cresta con strette cenge ghiaiose. Qua e là ruderi di ogni genere: tavolacci antichi, scatolette di viveri arrugginite, muretti a secco mezzi crollati, gabbioni riempiti di sassi. Più su, tra alcune torri sovrastanti la cresta, spuntano pali conficcati nella roccia, filo spinato, resti di baracche: nidi d’aquila… o di trogloditi. Ero arrivato là dove mi avevano indicato.
# Vita comandata #
In fuga dalle nebbie.
Ed è dentro di noi!
Lasciata l’auto sul bordo di una stradina nel bosco, Maska già intravvedeva la luce che stava filtrando dalla nebbia: lenta ma stava arrivando.
Mosse i primi passi sulle caduche foglie ancora umide e, poco dopo, appena la coltre nebbiosa di dissolse definitivamente, trovò una traccia che sembrava avviarsi verso la cima.
La seguì, ma la salita fu subito impegnativa, scivolosa: le foglie cadute dagli alberi erano umide e tante (bellissimo razzolarci dentro, come i bambini), ma proprio tantissime, troppe… e la traccia si perde, sepolta.
«… sorveglia i tuoi piedi, assicura il tuo prossimo passo, ma che questo non ti distragga…».
Maska non si scoraggiò e si inventò un percorso alternativo anche se sconosciuto, incerto come i pensieri che ancora riempivano il suo andare.
Saliva, sudava, si fermava per rifiatare e nella sua testa era tutto un turbinio che girava all’impazzata.
# Vita incerta #
Cautamente cerco la via più sicura per proseguire e, dopo qualche passo delicato lungo la cresta scoscesa, d’un tratto appena sopra di me, al termine di un ripido canalino… eccola!: una piccola postazione in caverna, interamente scavata nella roccia e con le pareti rinforzate in cemento armato. Finestra invisibile sospesa sull’abisso, osservatorio dominante per dirigere il tiro dei cannoni (ma come facevano le vedette a resistere in posti così quando soffiava il vento gelido e cadevano anche tre-quattro metri di neve… ma che uomini erano?).
La grande soddisfazione non mi fa sentire la fatica ma mi prende un profondo senso di malinconia e di struggimento: avevo trovato quello che cercavo ma quanta tristezza nel pensare a quello che accadde qui poco più di un secolo fa.
Sopra solo il cielo, in basso l’inferno di fuoco, dentro i ricordi di un’esperienza assurda. Freddo, malvestiti, poco cibo, lontani da casa per quaranta mesi, fatiche immani, bombe, ferite, sangue, morte: vita comandata e involontariamente sprecata!
# Alpinisti loro malgrado #
Seguendo il suo innato istinto di orientamento Maska riuscì comunque ad arrivare dove voleva, raggiungendo le ripide praterie sommitali.
Lassù, pochi abeti e qualche larice si slanciavano dall’erba ormai ingiallita sullo sfondo di un cielo terso e più azzurro che mai.
In basso, la fitta nebbia celava ancora la pianura e tutte le negatività accumulate nei mesi passati.
L’inversione termica diffondeva un tepore romantico , un abbraccio a chi aveva finalmente trovato la luce e quello che stava cercando.
La sua ombra, comparsa d’improvviso e contornata dai colori più belli, fu la rivelazione, la scoperta così inaspettata e tanto ovvia, impensabile fino a quel momento.
Un grido soffocato dall’emozione le uscì dal profondo dell’anima: «Ecco dov’è il Monte Analogo: è dentro di me… di noi… di chi è caduto ma vuole risollevarsi,
di chi si angoscia per tornare alla felicità, di chi desidera ad ogni costo trovare la via per uscire dalla nebbia del cuore e dell’anima.
Noi che alla fine dell’avventura abbiamo capito che la via dell’impossibile esiste!
Ed è dentro di noi».
# Montagnisti in cerca di (ri)vivere #
Fa trapelare una profonda emotività e un forte amore per la montagna. Leggendo la sua storia ho apprezzato subito Maska e la bravura di chi ha scritto di lei
Grazie, Elena (ma diamoci del “tu”… che dici?): è proprio così.