[ 2 classificato bc.2016 ]
testo e foto di Gabriele Villa / Ferrara
All’inizio fummo vagabondi per necessità.
Eravamo una mezza dozzina di ragazzini, senza mezzi di spostamento, in un paesino di montagna con vista sulla Nord-Ovest del Civetta, guardavamo quel castello di rocce, mentre scorazzavamo sui pendii di erbe e sassi del dirimpettaio Sasso Bianco.
Miravamo alle cime, ma tutto era meta, tutto quello che fino a un anno prima faceva parte dei divieti, uno in pratica, non allontanarsi dal paese.
Avevo diciassette anni, mio cugino e gli altri amici pochi meno.
Dieci anni dopo, cominciai ad arrampicare e il vagabondare divenne verticale, soprattutto quando si sbagliava via o il calcolo dei tempi e si doveva improvvisare.
Erano stress, ma quanto era avventuroso rientrare a notte fonda, al chiaro della luna, ma anche no, riuscendo a malapena a distinguere la traccia del sentiero che ti riportava a casa?
Poi arrivò l’imprinting, una foto in bianco e nero sul libro “Tra zero e ottomila” di Kurt Diemberger: due giovani con gli zaini sulla schiena da cui sporgevano corde da arrampicata, sacchi a pelo, tegamini per scaldare il cibo e una didascalia, “i vagabondi della montagna”. Quello era il sogno e trovai il compagno giusto per condividerlo, facemmo ciò che faceva Diemberger con l’amico Wolfi, in piccolo, perché entrambi avevamo un lavoro fisso ed eravamo alpinisti domenicali, di belle speranze, ma poca esperienza.
Andavamo via tutti i fine settimana, dormendo in auto, a volte in tenda, altre nei “tabià” che, all’inizio degli anni ’80, trovavi quasi tutti aperti e pieni di fieno.
In agosto poi, la settimana intera di ferie era l’apoteosi.
Era il vagabondaggio desiderato, con tenda, fornello, sacco a pelo, utensileria da tavola, necessario per lavarsi nei torrenti e un minimo per cambiarsi, oltre al materiale da arrampicata, naturalmente, perché quella era la “benzina” del nostro motore.
Vagabondare per noi era andare dove ci portava la voglia di arrampicare, ma il senso principale era quello di non sapere al mattino dove si sarebbe dormito la sera, e la speranza di trovare un prato e una notte serena per dormire senza la tenda e con il firmamento stellato che ti riempiva gli occhi. Infatti, in quel periodo, tenevo non solo il diario delle arrampicate, ma anche quello dei bivacchi e nel 1979 furono trentacinque.
Gli impegni di lavoro e poi quelli della famiglia mi hanno sempre impedito di diventare un vagabondo a pieno titolo, così come di impegnarmi in avventure extraeuropee.
Mi sono accontentato di essere un vagabondo più nello spirito che nei fatti.
Un vagabondo par-time.
[ 2 classificato bc.2016 ]