Racconto

TESTIMONE MORENTE

Quasi una stretta al cuore nel vedere sparsi sulle rocce di dolomia, esposte dopo millenni al sole, i pochi frammenti in legno di quella che un tempo era stata la Città di Ghiaccio.

testo di Mirco Rossi

Foto di Vincentiu Solomon su Unsplash
05/02/2023
12 min
Non si chiamava Pettorina quando cominciò a portare a valle, istante dopo istante, giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, pezzi e frammenti di montagna.

Come lo scultore, piccole o grandi, toglie le schegge e spacca il marmo per far uscire la sua opera, così per millenni aveva inciso l’imponente massiccio di calcari, riemerso dalle lave e dalle ceneri sotto le quali era rimasto sotterrato per milioni di anni. Precisione, pazienza infinita, alternata a violente piene, avevano allontanato a mano a mano i margini della spaccatura.

E ora che la scimmia nuda gli ha affibbiato un nome, incurante dello stupore, della meraviglia, degli interessi di noi umani, inarrestabile tra piccoli e grandi salti, trascina sabbie e ciottoli, macigni e frammenti di distruzione costruttiva. Schiumoso nel gorgoglìo di cascatelle, placido e brillante respiro nelle anse piane e nelle pozze trasparenti, il canto liquido risale le due pareti, ormai rassegnate all’incolmabile distanza. Arbusti, muschi, felci, eroici abeti, abbarbicati su strette balze puntano alla luce. Piccoli scrosci escono improvvisi dalla striscia di cielo e lunghi veli di gocce polverizzate coprono le rocce.

Altro modo non c’era per raggiungere dall’agordino il luogo dov’ero diretto. Un sentiero che condivideva il corso del torrente in più punti, sistemato da secoli per raggiungere i prati alti ai piedi del Vallon d’Antermoia e dei Monti dell’Ombretta. Versanti del massiccio della Marmolada che più di altri alimentavano le acque dirette a valle, nel Cordevole, verso il Veneto. Incise sulle pareti qualche metro più su di dove stavo passando, tracce di percorsi umani antichi, frantumati come il resto del canalone dall’instancabile lavorio delle acque e, a quei tempi, dalle frequenti rovinose ondate di piena.

Da qualche anno nei Serrai ne confluivano ben poche. Le più si univano sottoterra alle condotte di scarico provenienti dal lago artificiale ai piedi del ghiacciaio della Marmolada e delle balze, ripide e scure, di Porta Vescovo e della Mesola. Turbinavano in ben sei centrali, da Malga Ciapela alla lontana Sospirolo, prima di confluire a rinforzare i deboli rivoli della Piave, ormai orfana delle zattere di legname e in difficoltà nello spostare i cumuli di ghiaia a sud di Belluno.

La Val Pettorina e Rocca Pietore (foto di Alessandro De Marco su Unsplash)

Verso il Lago Fedaia, il serbatoio artificiale ai piedi del grande ghiacciaio.
Ascolto, osservo, in piedi nel piccolo slargo abbandonato dal torrente. Giro su me stesso, a ritrovarmi in tanta unicità. Trattengo il respiro, quasi a nascondere la mia presenza. Con tre amici mi ero inoltrato di buonora nel canyon, superando le poche case di Sottoguda ancora sonnolente. Non ero mai entrato prima in quella gola, ma il sentiero stretto nella inquietante morsa di roccia non aveva fatto paura a me, né alla fida 500 dai cerchioni gialli. Sterrato ma ben curato, lo stavo risalendo, senza troppa fatica e in sicurezza, su tratti asciutti, ponticelli di legno e piccoli guadi, ben sistemati, bassi e calmi. Diretto a Malga Ciapela e poi su, per la mulattiera da poco sistemata durante i lavori della diga, verso il Lago Fedaia, il serbatoio artificiale ai piedi del grande ghiacciaio.

Sere prima al bar, qualcuno che la montagna la frequentava, mi aveva avvisato che sarebbe stato quest’ultimo il tratto capace di mettere alla prova il piccolo bicilindrico. “Beh, se proprio non ce la fa, li farò scendere a spingere” avevo pensato. “Magari si faranno un pezzo a piedi, ma voglio arrivare a toccare il bordo del ghiacciaio”. Da solo, alla guida, sarei certo arrivato in quota col mio macinino alleggerito.

In quell’angolo di stasi, riempio gli occhi di pareti scoscese, di barbagli di luce sull’acqua, di verdi e grigi di ogni tonalità; i polmoni con l’aria fresca. L’anima o, se vuoi, lo spirito, i sensi, col racconto muto e inarrivabile del tempo che passa, dei luoghi che mutano. Gli altri scattano foto.

Ripartiamo, giungendo presto a sbucare sul largo declivio erboso di Malga Ciapela, costellato da alcune baracche e ripari in legno, dietro al solo piccolo albergo in pietra, a tre piani, che fronteggia la gola.

Sullo sfondo lo sperone delle Pale dei Menin nasconde il Vallon d’Antermoia e declina verso il sentiero che risale, dopo il primo tratto di conifere, tra i prati della Val d’Arei in costante pendenza, lungo, dritto e ancora lungo, senza respiro. Ai piedi dei contrafforti digradanti da Punta Serauta disegna poi una fitta serie di tornantini per sbucare infine in quota al Passo Fedaia. La porta est dell’antica valle in cui nasceva l’Avisio, ora emissario del nuovo lago formato dallo sbarramento di cemento rivolto al Trentino. Nei tratti più ripidi di quei pochi chilometri di erta e pietrosa salita avevo fatto scendere i passeggeri a spingere, ma il motore, si era comportato con dignità.

Foto di Janine Joles su Unsplash

Raggiungo in breve senza fatica la neve.
Sul passo ciò che appare in quella luminosa giornata di fine maggio, è strepitoso stupore. Immobile, l’azzurro terso del cielo si specchia nel lago sino al bordo lontano della diga e separa il versante del ghiacciaio da quello difronte, i pendii che dal Padon si spingono sino al Belvedere di Canazei. In ombra il primo, bianco di neve giunta a sfiorare le larghe macchie di mughi che si inoltrano verso l’alto dalla riva. Scuro d’erba secca cresciuta su ceneri e lave il secondo in pieno sole, macchiato dal verde intenso di qualche solitario abete a pochi metri dall’acqua. Un contrasto sorprendente, raro. Laggiù, dove i particolari scompaiono dietro il coronamento della diga, il costone sommitale del Gran Vernél, il profilo del Belvedere e oltre, a perdita d’occhio, le cime imbiancate del Catinaccio.

La strada prosegue a sinistra, sul lato sotto il ghiacciaio. Il cantiere aveva dovuto costruire la variante e abbandonare la precedente carrareccia, impostata dall’altra parte, troppo esposta alle valanghe invernali. Arriviamo tra le poche costruzioni all’inizio della diga, vicine alla stazione di partenza della cestovia che sale al Pian dei Fiacconi, e risaliamo un po’ il versante sino alla spianata dove ancora si vedono i resti delle baracche degli operai.

Esaurita la voglia di fotografie, gli altri vogliono spostarsi al sole per accendere il fuoco e cuocere le salsicce acquistate a Caprile. “Potete andare avanti a piedi”, rispondo. Basta attraversare sulla diga verso il Rifugio Castiglioni e inoltrarsi un po’ per lo sterrato sull’altra sponda. “Io salgo qui, seguo il sentiero, sino a toccare il ghiaccio. Un’oretta e sono con voi”. Ci inerpichiamo in due, digiuni di sentieri e montagne, ma proseguire è semplice e il traguardo non troppo lontano. Raggiungo in breve senza fatica la neve, ma il dente del ghiaccio vecchio si intravvede più su, una cinquantina di metri ancora, che non mi arrischio a percorrere.

Attorno al fuoco, a riempire la pancia di formaggio e salsicce arrostite, per un paio d’ore sopporto il riverbero del sole ed esploro, con occhi affascinati, il vasto manto bianco riempire il panorama. Incuneato nei valloni a circondare il Sasso delle Undici e quello delle Dodici, ricopre ogni cosa tranne due o trecento metri di roccia e mugheta lungo il bordo del lago.

Foto di Marco Bonomo su Unsplash

Quella montagna, mi attraeva ma la vita è complicata.
Vent’anni li avevo compiuti da un mese e conoscevo due o tre di quei nomi. Li sfoggio ora, dopo mezzo secolo, quando ormai ho consumato scarponi e carte topografiche sui sentieri nelle Dolomiti. Imparando ad amare i silenzi, rotti dal rumore dei passi sulle rocce che paiono spegnere i pensieri. Pare, ma nascosti, come software in background, essi rielaborano sensazioni e intuizioni dimenticate, riemergendo improvvisi lucidi come perle. Ho raccolto aneddoti da malgari, chiacchiere nelle osterie, notizie nei rifugi. Ho letto libri che ne raccontano le origini, conservano pagine di storie fantasiose dedicate alle cime da scrittori e poeti. O tragiche che parlano di trincee, freddo, morti, valanghe, malattie e inutili sanguinose carneficine per pochi metri di pietre.

Ripetei più avanti quella scampagnata con la fidanzata, con gli amici. Un paio di volte risalendo ancora i Serrai prima che fossero chiusi, sostituiti dalla nuova strada, necessaria al turismo di massa richiamato dalla funivia appena costruita. Con un ponte supera l’orrido scavato dal torrente nel punto più profondo, entra in galleria ed esce in vista della stazione di partenza. Due lunghi salti sospesi nel vuoto, e si è presto a Forcella Serauta, poi altro balzo sino a Punta Rocca.

La montagna, quella montagna, mi attraeva ma la vita è complicata. Avevo altro da fare e da inseguire.
Saltai nella cestovia a Pian dei Fiacconi un decennio dopo, con la moglie e amici trentini, salendo da Canazei. Avevo imparato, si fa per dire, a sciare e a metà marzo quell’impianto apriva quando gli altri chiudevano.

Nel tempo lo sci, praticato pochi giorni all’anno, mi avrebbe spinto a provare le sciovie e le seggiovie del ghiacciaio, sotto la stazione intermedia. Durarono poco, superate dalla nuova pista che partiva dalla parte sommitale del ghiacciaio. La quantità di neve, accumulata sul ghiaccio e, più in basso, su rocce e prati, permetteva di praticare lo sci sino a primavera inoltrata, quando tutto il resto del circo bianco chiudeva. Ma mi limitavo a fare con la famiglia la “settimana bianca” e, tra impegni di lavoro e di scuola, riponevo gli sci ben prima della fine dell’inverno. Non ero ancora il patito per quello sport che sarei diventato andando in pensione.

Foto di Giacomo Berardi su Unsplash

E la neve, si riposa placida sotto il sole, è come la superficie del mare.
Fu allora che incoscienza, buona sorte, figli grandi, tempo e tranquillità economica diedero la stura alla passione avvertita in gioventù e rimasta inespressa. Impiegai quattro inverni a seguire il maestro di sci e imparare un po’ la tecnica per godere la neve. Altrettanti per capire con i gruppi di escursionisti che sarei stato in grado di muovermi in sicurezza anche da solo tra i sentieri dolomitici d’estate. Cominciai a sentirmi libero di scorrazzare a piacimento nei tanti luoghi alla portata di un anziano “in forma”, come tuttora. Lontano da improbabili pretese, ma capace di conquistare cime e seguire percorsi impegnativi.

Ma torniamo sulla grande montagna del mio approccio giovanile. Confidenza e fiducia, raggiunte quarant’anni dopo, cominciarono a riportarmi spesso d’inverno sulla neve di quel ghiacciaio. Si saliva ormai in pochi minuti là, in alto, dove il respiro risente della quota a pochi metri dalla parete sud, lo strapiombo che guarda le Cime di Ombretta e il Rifugio Falièr, quasi un chilometro più in basso. Uno dei punti più ambìti di arrampicata nelle Alpi, così ardito da spingere i generali italiani della Grande Guerra a realizzare tutto il materiale per la risalita in pallone e sorprendere i tedeschi abbarbicati in cima. Solo la ritirata improvvisa a seguito della rotta di Caporetto, bloccò l’incredibile iniziativa all’ultimo momento, quando tutto era pronto.

Bianco, solo bianco, da sotto i piedi sino alle creste difronte. Anche il lago ghiacciato e il versante a mezzogiorno, alla base del quale ora scorre la nuova strada, munita di tunnel in cemento a difesa dalle valanghe. Affronto chilometri di pista battuta verso Malga Ciapela. Discesa impegnativa per la tecnica e il fisico, percorso da scariche di adrenalina. Il paesaggio è fugace sensazione, i momenti di pensiero riflessivo, inesistenti. Tutto preso a condurre la curva, a rallentare o aumentare l’andatura, a dimenticare il freddo, a controllare la superficie da percorrere, la posizione e le intenzioni degli altri. Così è lo sci. Da questo nascono le emozioni che regala ogni discesa. Possono cambiare le difficoltà, la pendenza, la lunghezza, il tempo, la neve, gli sci, ma in sostanza questo vive lo sciatore. Sì, certo, il panorama cambia, eccome se cambia, ma mentre scendi conta poco. E la neve, quando è caduta e si riposa placida sotto il sole, è come la superficie del mare: sotto può esserci qualsiasi cosa e tu non vedi nulla. Forse sai, ricordi, hai visto o letto, ma non vedi niente. Bianco e neve.

Dall’altra parte della valle l’arrivo della funivia di Porta Vescovo sta proprio difronte alla Marmolada. Talvolta, calzati gli sci, aspettando gli amici, la parte superiore del ghiacciaio mi era sembrata più ripida, meno rotonda e alcune ondulazioni che non ricordavo erano apparse nella zona bassa. Ma appena la discesa richiedeva attenzione me ne dimenticavo.

Foto di Giacomo Berardi su Unsplash

I ghiacciai si stavano ritirando, sì lo sapevo, pensavo al polo, sull’Himalaya.
Tra i primi esperimenti di percorsi facili, da fare in autonomia a inizio estate, scelsi i Serrai, da poco riaperti solo ai pedoni. Bel giro, ma sulla strada asfaltata, i ponticelli in cemento, il trenino elettrico e tanta, tanta gente rumorosa e ilare, non ritrovai le sensazioni di un tempo. Tutta diversa l’atmosfera, irripetibile l’intimità e la ben più corposa naturalità delle prime volte.

Trovai pieno di gente anche il facile sentiero che porta dal Passo Pordoi al Rifugio Viel del Pan, scelto per confermare le mie ancor deboli sicurezze di escursionista autonomo. Ne avevo sentito parlare, ma quel che vidi dal rifugio col binocolo non l’avrei più dimenticato. A fine agosto, centro di un panorama straordinario, il ghiacciaio della Marmolada era un lontano parente di quello che avevo visto la prima volta. Non solo il suo bordo inferiore era risalito forse di un chilometro ma si notava che, pieno di rughe come la pelle di un vecchio, si era assottigliato ritirandosi ben dietro e lontano dai due rifugi di Pian dei Fiacconi. L’uscita della stazione intermedia della funivia sul Serauta si affacciava nel vuoto e il tunnel di lamiera, libero dal ghiaccio, sfociava su un salto notevole all’altezza del vecchio skilift abbandonato. Appena sotto, nell’ampia curva della pista attorno al Sass del Mul, centinaia di teli affiancati trattenevano la poca neve rimasta.

I ghiacciai si stavano ritirando, sì lo sapevo, pensavo al polo, sull’Himalaya. Mai mi sarei aspettato di vedere il declino così avanzato su quelle che, in fondo, erano le terre del mio giardino. Con tutta evidenza mi sbagliavo.

Lo spettacolo restava magnifico ma il confronto con i miei ricordi era avvilente.
Con altre esperienze da escursionista solitario mi preparai a quanto mi ero ripromesso di fare. L’estate successiva, controllata la carta dei sentieri e raccolte le informazioni in rete, decisi di salire a Pian dei Fiacconi. Non con la cestovia o sul sentiero più battuto che ne rincorre la direzione, ma seguendo l’altro che aggira il Col de Bous, incrocia quello proveniente da Penìa e prosegue in vista del Gran Vernél per sbucare in quota sull’ampia spianata di ghiaioni non lontano dalla meta.

La prima volta ero stato attento a dove mettere i piedi, a non sbagliare direzione visto che ben pochi escursionisti lo percorrevano. Avevo fretta di arrivare e molto di ciò che arricchisce quel percorso lo osservai di sfuggita. Fu meno complicato e più piacevole di quanto avessi pensato. Dal Rifugio Ghiacciaio, il più in quota dei due, lo spettacolo restava magnifico ma il confronto con i miei ricordi di mezzo secolo prima, avvilente. Gran parte dei residui tratti sommitali del ghiacciaio, ormai separati dalle sporgenze rocciose di Sass Bianchet e dei bastioni sotto le due cime, si mostravano grigi, sporchi, segnati da profondi e scuri seracchi. Nemmeno lo stretto nastro di neve della pista da sci, pressata da decenni con i gatti, era bianco. Quasi una stretta al cuore nel vedere sparsi sulle rocce di dolomia, esposte dopo millenni al sole, i pochi frammenti in legno di quella che un tempo era stata la Città di Ghiaccio. L’intrico di gallerie austriache scavate dentro al ghiacciaio, allora spesso decine di metri, per riparare le truppe e tenerle quanto più vicino alle creste e alla Forcella a “Vu”, di continuo sotto attacco degli italiani.

Ogni estate, avrei rifatto quello stesso sentiero, solo o accompagnando amici ad apprezzarlo. Iniziai a provare confidenza con le evidenze rimaste degli acquartieramenti austriaci che collegava, numerose e importanti. Con l’aiuto di qualche libro ne individuai la natura e i ruoli svolti nella cosiddetta “Battaglia della Marmolada” durante la Grande Guerra. Cucine, depositi, gallerie, appostamenti per cannoni, fondazioni di abitazioni e magazzini, resti di teleferiche, trincee, reticolati. Mostravano comunque poca cosa di quanto era stato costruito.

Il ghiacciaio della Marmolada

L’estate più calda da un secolo ha allargato i vecchi crepacci.
Forse la più gigantesca valanga che l’uomo ricordi sulle Dolomiti, staccatasi da Punta Rocca il 13 dicembre del ‘16, aveva spazzato via tutto dal Gran Poz, l’avvallamento ai piedi di Col de Bous, ora vasta placconata rocciosa, percorsa da cascatelle trasparenti e piccole marmitte tra massi lucidi e levigati. Aveva trascinato giù sin quasi all’Avisio decine e decine di depositi e baracche, con centinaia di soldati. Più di 300, scrivono i libri.

Un evento, come tanti altri, non previsto dall’uomo ma da considerarsi “normale” a quelle quote, in certe condizioni. Neve ne cadeva tanta per mesi sulle creste a quel tempo, ma tuttora, anche se le precipitazioni scarseggiano, il vento forma cumuli instabili lassù. Il 14 dicembre del 2020, staccatasi dallo stesso posto, una valanga, più piccola ma altrettanto inarrestabile, ha distrutto il Rifugio Pian dei Fiacconi, all’arrivo della cestovia, ormai dismessa. Forse il ricovero più in armonia con quella montagna, come sempre chiuso in quel periodo.

Il progressivo aumento di temperatura, legato al cambiamento climatico che stiamo contrastando solo a parole, si somma, in tutte le stagioni, alla scarsità cronica di precipitazioni. Da anni assottigliano il ghiacciaio, lo costringono ad arretrare e ne mettono in crisi la stessa struttura. Nessuno ha ricordi che, in pieno luglio, un gigantesco ammasso di ghiaccio sia mai collassato dalla cima per rotolare a valle. È accaduto qualche mese fa. Sempre dallo stesso posto, ma questa volta non è neve, ma ghiaccio vivo, accumulatosi per secoli e secoli. Ora divenuto instabile, corroso dall’acqua che lui stesso rilascia fondendosi e che non gela più durante gran parte dell’anno, nemmeno a quella quota. Dopo un inverno asciutto, l’estate più calda da un secolo ha allargato i vecchi crepacci, aprendone decine di nuovi. Segnali di morte imminente per tutto il ghiacciaio. Non domani, ma di sicuro non tra generazioni.

Vedo fenomeni a cui l’uomo non ha mai assistito.
Nulla fa pensare che il processo ormai manifesto e così avanzato, s’inverta. Che tornino ad accumularsi, strato dopo strato, nuove quantità di neve a risollevarne le sorti. Quella che cade, la poca che cade, a inizio primavera comincia già a sciogliersi e nei mesi estivi il sole scalda quella, divenuta ghiaccio, forse caduta oltre cinquemila anni fa. Magari negli stessi giorni in cui scendeva anche sul Similaun, a coprire Ötzi, ucciso dalla freccia.

Sulla Marmolada vedo fenomeni a cui l’uomo non ha mai assistito. Pare stiano arrivando a raffica, se ricordo il preavviso della tempesta Vaia. Solo quattro anni fa ha liberato il Pettorina da ogni artefatto umano, rovinandolo a valle e riportando i Serrai sotto il dominio della natura. La stessa sera ha sradicato milioni di piante d’alto fusto in tutte le alture, vicine o lontane vassalle della Regina. Lei regnerà ancora per millenni, lasciando splendere tutti i suoi calcari al sole, prima che l’erosione la consumi. Ma il ghiacciaio è testimone morente della crisi climatica che, nell’illusione di onnipotenza, noi umani abbiamo causato e stiamo alimentando.

Frattanto, ancor prima che la sparizione di questo, come degli altri naturali serbatoi montani, impoverisca le falde acquifere, i fiumi, condizioni l’agricoltura e la vita stessa delle popolazioni delle pianure, scenari difficili turbano migliaia di famiglie bellunesi e trentine, da tempo dipendenti dall’economia turistica montana, che per buona parte gira attorno alla Marmolada, al suo ghiacciaio e alla neve invernale. Le valli dolomitiche rischiano di essere nuovamente abbandonate da migranti colpiti da una crisi irreversibile che non sembra offrire valide soluzioni, almeno sinché non si prenderà atto che essa pretende approcci diversi e innovativi da parte dell’uomo.

Foto di Ivars Utinans su Unsplash
Mirco Rossi

Mirco Rossi

Vive a Venezia, dove ha fatto studi di economia, sviluppato l’attività lavorativa, le esperienze politiche e sindacali. Ha coordinato per un decennio l’attività di Enel a favore del sistema scolastico del Triveneto, oltre ad un’intensa attività d’informazione scientifica sugli aspetti energetico-ambientali, indirizzata a cittadini, associazioni, forze politiche e sindacali, insegnanti e soprattutto studenti. Mette in evidenza le relazioni tra gli aspetti tecnico-scientifici e i valori etico-sociali. Sviluppa i problemi dei mutamenti ambientali e del declino delle risorse, collegandoli alla responsabilità e alle prospettive della società consumista. È membro del Comitato Scientifico di Aspo Italia (Association Study of Peak Oil and Gas) e del Comitato Scientifico del Centro Studi l'Uomo e l'Ambiente di Padova. Da un quarto di secolo dedica molto del suo tempo a percorrere le nevi e i sentieri più elevati delle Dolomiti.


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3 commenti:

  1. Gianni ha detto:

    Mi hai fatto voglia di solcare quei sentieri, però forse è troppo tardi
    Complimenti

  2. Galileo Venturini ha detto:

    Ho salito la Marmolada dalla Forcella omonima per la via ferrata e discesa per il ghiacciaio alcuni anni orsono. Arrivati alla fine del ghiacciaio sono rimasto sorpreso, nel vedere come erano pulite e chiare le prime rocce incontrare e come il rifugio Fiacconi era già abbastanza distante dal bordo del ghiacciaio. Questo mi ha fatto pensare che pochi anni prima dovevano essere ancora coperte dal ghiaccio da chissà quanti millenni. Il perderli, i ghiacciai, che magari in parte è per colpa nostra che non vogliamo capire il disastro che andiamo causando. Auguriamoci di prenderne coscensa.

  3. Stefano Merilli ha detto:

    Per due anni all’inizio degli anni ’70 quando la cestovia sostituì la seggiovia aiutavo nella gestione estiva l’amico e Guida Alpina Azzurro proprietario del rifugio al pian dei Fiacconi. La mattina partivo segnalando i crepacci più pericolosi ed arrivavo alla capanna di punta Penia, portando a spalla anche gli approvvigionamenti necessari per il modesto servizio ristoro, attrezzato sopratutto per chi arrivava percorrendo il ghiacciaio ma anche per chi arrampicava sulla parete sud o chi con la ferrata percorreva la cresta ovest e, a quei tempi anche dalla parete nord, una bella via di ghiaccio che ovviamente veniva fatta quasi in notturna. Libero dalle incombenze del rifugio percorrevo il ghiacciaio in lungo e largo raggiungendo poco sopra il pian dei Fiacconi gli incredibili seracchi con riflessi azzurrini e verdi; e il ghiaccio c’era eccome, bianco come d’inverno, a volte anche in estate le temperature notturne scendevano di parecchi gradi ghiacciando il tubo dell’acqua prelevata direttamente dal ghiacciaio poco dietro il rifugio

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