testo e foto di Davide Torri
Non so voi ma io mi emoziono sempre. Non del tipo strizzo-un-poco-gli occhi. No, piango proprio, da prendere un kleenex e fingere che qualcosa mi sia infilato nell’occhio. Lo so, è imbarazzante. Piango quando il piccolo Atari pulisce Chief rivelando il suo pelo bianco. Piango leggendo l’autobiografia della Winterson. Piango anche al concerto di Caparezza. Insomma, come si dice, le emozioni non mi passano sopra.
Abbiamo camminato a lungo ieri. Almeno sette ore, tanto dislivello, parecchia strada. Sono con mia figlia Veronica e, dopo aver dormito nel bellissimo Rifugio Quinto Alpini, lanciato qualche pezzo di pane secco alla volpe Foxi, stiamo preparando lo zaino. Il suo, grazie alla mia schiena, è leggero e ben compatto, il mio sembra quello di un Tacabanda, quei tipi che da soli sembrano una orchestra intera con tamburi, chitarre, piatti, trombe e altro ancora, e appena lo rimetto sulle spalle capisco come pesa la vita.
Tra ghiacciai in fallimento ambientale e cime a ricordare l’assurdità della Guerra
Mia figlia vive in Olanda dove la montagna più alta si chiama Vaalserberg (dove berg sta proprio a montagna) che ha un’altezza di 321 metri. Altezza? Bassezza. Mia figlia vive in Olanda come le centinaia di migliaia di giovani italiani che negli ultimi anni se ne sono andati all’estero alla ricerca di qualcosa che l’Italia non riesce a dare. Oggi mi accompagna in una bella traversata tra ghiacciai in fallimento ambientale e cime che, ancora oggi, sono a ricordare l’assurdità della Prima Guerra Mondiale e l’assurdità di qualsiasi altra guerra. Anche tra condomini. Abbiamo scelto questa variante impegnativa perchè mi piace fare itinerari ad anello. Odio tornare sui miei passi.
È ancora presto, stanotte ha piovuto ed è stato un piacere ascoltare il battere ritmico della pioggia sul sorprendente tetto giallo pantone 109 e dormire con un lieve senso di freddo, ma ci avviamo. Veronica ha uno sguardo perplesso, accenna alla possibilità di tornare al parcheggio ripercorrendo la traccia del giorno prima ma poi si fa convincere e comincia a salire il ripido sentiero che in pochi tornanti ci porta davanti al Ghiacciaio dello Zebrù. Ci leghiamo, con noi alcuni amici. La cordata un po’ naif, ma non così tanto da essere incosciente, attraversa la grigia distesa di ghiaccio. Ecco, l’idea che il ghiacciaio sia limpido, bianco e azzurro è certo una idea romantica ma a queste quote non realistica. Foto di rito davanti ai crepacci più minacciosi e profondi: Veronica sorride e sembra un manifesto di Gino Boccasile. Ma, come si addice ad una armata Brancaleone, sbagliamo la traccia e allunghiamo il percorso di oltre un’ora.
Infine le roccette finali della Cima delle Miniere, una salita di livello PD
Va be’, abbiamo tutta la giornata davanti e il tempo sembra reggere nonostante la nebbia salga dal fondo valle a tratti. Infine scopriamo le poco visibili tracce di sentiero che portano alle roccette finali della Cima delle Miniere. Una salita di livello PD (ecco, e allora il PD?!1?). Scelta anche per quello. Una specie di rievocazione/riesumazione. PD o non PD fatto è che Veronica non ha mai salito nulla di lontanamente alpinistico.
In fondo non è proprio così: apro la scatola delle fotografie. Ne ho un sacco, tantissime prima dell’arrivo del digitale e Veronica è in un marsupio imbottito con sua madre mentre supera il Passo Principe per scendere al Lago di Antermoja, e poi con una specie di guinzaglio –a pensarci ora mi domando come mai i servizi sociali non siano intervenuti- mentre sale su un sentiero attrezzato in Alta Valle Maira, e poi con suo fratello sollevare un pesante martello di legno (da dove cavolo arrivava?) in vetta al Resegone e, ancora, davanti all’Adamello, al Monte Rosa e sul colletto innevato del Gran Sasso.
Veronica va che sembra una montanara
Si arriva in vetta e fa ancora impressione trovare una baracca che avrà ospitato, in tempi più freddi e più bui, giovani meridionali che, come mia figlia, mai avevano attraversato un ghiacciaio. Giù a capofitto, con l’aiuto di corde fisse e cercando di non rotolare assieme alla roccia fradicia, sul ghiacciaio, quello delle Miniere, che ci attende. Più faticoso, il caldo e la pioggia lo hanno solcato di profonde canne d’organo che devi affrontare con grande attenzione perchè non sai se sotto lo strato di neve sporca c’è del ghiaccio o un buco famelico. I miei passi si infilano tra neve marcia e rigagnogli di acqua gelata. Osservo davanti a me Veronica: ha gli scarponi, che le lasceranno poi delle piccole piaghe, e i ramponcini di sua mamma, una imbragatura prestata da mio cognato, dei pantaloni adatti ad una ultratrail, una giacca a vento non sua, la mia berretta, un paio di guanti della Caritas, degli occhiali da sole, suoi, acquistati anni fa da un ambulante a Berlino e una sciarpa di Zara (la catena non l’isola). Però va che sembra una montanara.
Pausa prima di affrontare il Col delle Pale Rosse: dal mio zaino escono panini scuri e un prezioso pacchetto di Pata Negra appena arrivato da Madrid e una poesia di Primo Levi dedicato al Ghiacciaio che leggo tra sguardi sorpresi (più del prosciutto che della lirica):
Sostammo, e avventurammo lo sguardo / giú per le verdi fauci dolenti,
e ci si sciolse il vigore nel petto / come quando si perde una speranza.
Dentro gli dorme una forza triste: / e quando, nel silenzio della luna,
a notte rado stride e rugge, / è perché, nel suo letto di pietra,
torbido sognatore gigante, / lotta per girarsi e non può.
Serve sempre, anche davanti ad un ghiacciaio, anche con un buon panino e Jamon Iberico, ricordarci che siamo uomini. Oggi soprattutto.
Riusciamo anche a trovare una bomba inesplosa
Passato il colle ci aspetta una lunga e faticosa discesa tra ghiaccio, palta, torrentelli e resti della Grande Guerra che il tempo e il caldo fanno riaffiorare. Subito dopo il Col incrociamo alcuni cacciatori di cimeli. Come fungiàt non salutano, non sollevano la testa e con gesti furtivi raccolgono da terra qualcosa che velocemente sparisce in piccoli zaini. I nostri compagni di avventura galoppano verso il Rifugio Pizzini. Io e Veronica ce la prendiamo con calma. Il più è fatto. Riusciamo anche a trovare una bomba inesplosa. Una vera bomba lanciata da un aereo nella Prima Guerra. Le lanciavano a mano, togliendole da una cassetta dietro al sedile del pilota. E’ lì che ci guarda e lì resta.
Abbiamo camminato per sei ore, superando un dislivello di oltre milleduecento metri. Le scarpe sono inzuppate e lo zaino mi taglia le spalle. E ci aspetta ancora una discesa spacca ginocchia. Mi sento in colpa per aver, in qualche modo, imbrogliato mia figlia proponendole questo lungo anello.
«Dai, domani a casa ti preparerò un buonissimo pranzo, così passiamo l’ultimo giorno insieme al meglio»
«Ma papà che dici? Questo è il nostro migliore quality time»
E checcazzo, ditemi voi se non devo tirar fuori un kleenex proprio ora.