Mi mordo il polpastrello dell’indice della mano sinistra, ma non sento niente. È così da un mese, ha preso troppo freddo.
Volevo fare un ultimo “lunghissimo” in montagna, prima che venisse la neve, quella vera. Ne era già caduta un po’, ma non pensavo fosse un problema. Val di Fumo, passo Ignaga, Val Adamé, bocchetta delle Levade e di nuovo Val di Fumo. Avevo dormito in un alberghetto all’imbocco della valle ed ero partito, correndo, parecchio prima che sorgesse il sole. Aria fredda, niente luna, ma tantissime stelle a tenermi compagnia. Arrivato al secondo lago il sole non era ancora sorto, ma c’era già molta luce ed il Caré Alto alle mie spalle era splendido. Più io salivo fra i prati gialli, più lui si tingeva di rosa, nel silenzio assoluto di un maestoso splendore.
Raggiunto il passo, dall’altra si era aperto un mare di nuvole delimitato dalle cime più alte, ed io ero sceso veloce verso la valle che volevo risalire, ancora pieno di energia, nonostante fossi già partito da 6 ore.
Dopo un’altra ora lungo le acque del Torrente Poia, trasparenti come solo quelle che scendono da un ghiacciaio sanno essere, avevo iniziato la salita verso la bocchetta. Il cielo era diventato grigio e avanzavo in uno strato via via più alto di neve, che nascondeva una distesa di pietre, di cui riuscivo solo ad intuire dimensioni e posizioni. Ogni passo era una incognita e procedevo lentissimo, sprofondando spesso fino a ben sopra il ginocchio, lungo un tracciato sempre più ripido e difficile da seguire. Non sapevo se in quelle condizioni, una volta superata la bocchetta, sarei riuscito a scendere dall’altro versante, ma pensavo solo ad andare avanti.