Dopo aver superato le ultime abitazioni e i meleti che coprivano le parti più assolate del pendio giunsi su un tratturo, aperto malamente da un bulldozer, che percorsi rapidamente fino in cima alla collina. Dinanzi a me trovai una piccola zona pianeggiante di circa un ettaro, ricoperta da vecchi meli artritici, delimitata su due lati da grandi massi e altri più piccoli, ammucchiati alla rinfusa, dalle cui fenditure spuntava una foresta di rovi.
I rovi, scoprii in seguito, erano giunti dall’Europa, non so se accidentalmente o di proposito, ad ogni modo qui trovarono il terreno adatto e nessuna capra disposta a mangiarseli. I loro frutti, le more, venivano divorati in grande quantità dagli uccelli indigeni e da stormi forestieri e tutti spargevano i semi all’infinito, moltiplicando l’abbraccio spinoso a dismisura.
Scoprii anche che i massi tondeggianti di dolerite⁽¹⁾, che vedevo accumulati qua e là, erano il frutto del lavoro di ex galeotti che, agli inizi dell‘800, dopo aver pagato il loro debito si videro assegnare quei terreni con l’impegno di dissodarli, ripulirli e coltivarli. Con seghe e asce arcaiche, furono abbattuti giganteschi alberi di eucalipto, bruciate le ceppaia le cui radici arsero per settimane. Dal suolo color arancio spuntarono i sassi, anch’essi di colore arancio ma blu-grigi all’interno, che vennero ammassati in lunghe file a segnare i confini. A portare quei massi lassù era stato il ghiacciaio che copriva tutta la valle e durante la fase del ritiro dei ghiacci i massi furono dispersi un po’ ovunque e, poco a poco, ricoperti di terra fertile.
Quando giunsi ad affacciarmi sulla valle che avevo dinanzi a me, rimasi folgorato dalla bellezza del paesaggio. Il delta del fiume, duecento metri più in basso, si apriva a centottanta gradi: acqua, isole, lagune, un susseguirsi di ghirigori disegnati dalle maree. Tornai al lavoro con gli occhi colmi di tanta bellezza. Quella stessa sera un amico mi disse che quel terreno sarebbe stato messo in vendita da un suo conoscente. Fu così che acquistai quel fazzoletto di terra, un rettangolo di un ettaro dove, dopo che i meli furono sradicati e bruciati, rimasero solo i massi portati dal ghiacciaio.
E’ il luogo che ti dice che tipo di casa puoi costruire e il momento più bello è quando ti siedi sulla tua terra e diventi tutt’uno con lo spazio attorno a te. Guardi il sole per capire come si muove, osservi da dove arriva il vento e come scorre l’acqua, cerchi di capire dove mettere le fondamenta, valuti come orientare la casa e a cosa dare le spalle, decidi dove piantare gli alberi sempreverdi che ti proteggeranno dal vento e quelli decidui che lasceranno filtrare il sole d’inverno e ti doneranno l’ombra nelle torride giornate estive. Osservi come il panorama muta continuamente con colori diversi e sprazzi di luce, una gamma infinita di doppi arcobaleni dai colori vividi, di nebbie che serpeggiano sul fiume e tra gli alberi, sotto un cielo blu cobalto.
Era una terra appesa al cielo e con tutta quell’acqua che vedevo lì sotto mi suggerì il movimento nello spazio. Chiusi gli occhi e mi apparve una nave. Decisi così di costruire una barca e come per tutte le imbarcazioni il vento era vitale.
Vorrei vederla questa tua arca.
Hai dato nome e orientamento, un privilegio.
Guardo la campagna veneta massacrata da sogni distorti… Grazie del racconto.