C’era una volta un sentiero che saliva in verticale. Era in una terra del nord poco prima dell’altro nord, quello dopo il tunnel che non c’è.
Il sentiero non esisteva sempre, c’era solo una volta l’anno e quando esisteva era una specie di festa.
Durante la festa c’era una gara. Si premiava chi arrivava prima in cima.
Chi lo conosceva, il sentiero, lo percorreva anche quando non c’era la gara, ma bisognava proprio conoscerlo. Quando c’era la gara il sentiero partiva da un prato enorme, quando non c’era la gara però nessuno doveva azzardarsi a metterci piede.
Davanti al prato c’era un maneggio, un mago parecchio irritabile tendeva a trasformare in cavallo, o asino, a seconda delle inclinazioni del malcapitato, chi si fosse avventurato a calpestarlo fuori dal giorno della festa.
Normalmente, invece, il sentiero partiva un po’ di lato, saliva un po’ di traverso, passava un po’ da un piccolo villaggio che esisteva solo un po’ quando non c’era la gara, e poco sopra diventava tutt’uno con il sentiero che saliva in verticale.
C‘erano fantasmi che ti invitavano a salire e vipere che ti sconsigliavano di ascoltare i fantasmi.
Il sentiero era cattivo e scontroso, ma molto bello. In alcuni tratti, per proseguire, bisognava accarezzarlo con le mani.
Solo in un tratto, di pochi metri, forse dieci, smetteva di tormentare il respiro e concedeva di riprendere fiato. Persino di correre, se ne si aveva voglia e forza. Ma non permetteva a nessuno di illudersi, ecco, quello no, quello non lo permetteva.
Si faceva pregare per quasi tutta la sua lunghezza. Non era tanto lungo, solo un paio di chilometri, il problema era l’altezza, se alzavi gli occhi quanto più te lo permetteva la testa, dal pratone di fianco al maneggio del mago cattivo, al di là degli archi gonfiabili colorati, e puntavi lo sguardo poco sotto l’azzurro del cielo potevi scorgere, un chilometro sopra, una croce alta, alta, sopra una roccia a forma di ferro da stiro.
Quello era l’arrivo della gara, o quasi.
Si chiamava Crepa Neigra la montagna, e il sentiero che lo percorreva nella linea di massima pendenza era proprio nero, si perdeva nel bosco scuro e si arrampicava gradinando il terreno. Saliva e saliva e poi saliva ancora tra le radici, in una scalinata che portava al cielo fatta di rami di abete, di morbido terreno, di mani che applaudivano, campanacci che suonavano e voci che invitavano a continuare.
Quando non c’era la festa il sentiero si nascondeva ed era ancora più nero, bisognava sapere che c’era e sperare che ti permettesse di entrarci. Si doveva evitare di farlo a scendere. C‘erano fantasmi che ti invitavano a salire e vipere che ti sconsigliavano di ascoltare i fantasmi. C’erano cerbiatti che ti deridevano, gradini che si nascondevano, radici che ti sgambettavano e abeti sussurranti cose irripetibili.
Quando percorrevi il sentiero nero, che ci fosse o meno la gara, ti chiedevi, a un certo punto, dove fosse finito l’ossigeno, ti domandavi cosa ne fosse stato dei muscoli delle cosce e, se ascoltavi bene, potevi sentire gli insulti che salivano dai polpacci. Il segreto era tapparsi le orecchie e trovare alla mente qualcosa da fare.
Ma era difficile.
Quel sentiero nero, la mente, lo conosceva da anni, sapeva chi era e cosa faceva a chi ci metteva sopra i piedi.
La mente è subdola. Lei sapeva del sentiero nero. Sapeva chi era, sapeva cosa ne sarebbe stato dell’ossigeno, dei polmoni, delle gambe. Era cosciente che lei, solo lei, avrebbe permesso a tutto il pacchetto di arrivare alla croce in alto e potersi finalmente buttare per terra a cercare aria a bocca aperta subito dopo il traguardo.
Quel sentiero nero, la mente, lo conosceva da anni, sapeva chi era e cosa faceva a chi ci metteva sopra i piedi. Ma non poteva farci niente. E tu, tu eri solo una pedina che credeva di far tacere l’una e rendere meno pendente l’altro.
Povero illuso che cammina, corre, ansima e si dimena per andare in alto e arrivarci con un minimo di dignità appiccicata addosso.
Ma poi ci arrivi, magari strisci, quasi, ma ci arrivi. E lo saluti il sentiero nero che ti guarda dal basso e sa già che tornerai ancora.
Lui sa anche questo, non sembra, non lo fa vedere, ma lo sa. Ha quell’aria burbera e seriosa, ma sotto sotto sorride. Il sentiero nero ti ha lasciato dentro un marchio, una specie di virus, il desiderio di salirci in poco tempo, o in tanto, che a lui mica interessa.
Di calpestarlo con gente attorno con dei numerini sulla pancia, o da solo e senza numeri.
Di attraversare il suo bosco e arrivare fino alla croce.
Lui lo sa, è il tuo sentiero nero, e sapeva anche che prima o poi ne avresti scritto qualcosa da qualche parte.