Lingua misteriosa il cimbro, che alcuni vorrebbero fosse semplicemente una sorta di bavarese medioevale, ma di questo il vecchio non è mai stato convinto; dove avrebbero imparato il latino nel 1200 dei poveri roncadori baiuvari?
L’uomo delle montagne racconta alla ragazza di pianura della pastora bosniaca, che aveva riconosciuto le proprie pecore nel disegno che lei gli aveva fatto a Venezia e ancora di altre cose a proposito di quella donna. «Vorrei conoscere questa signora forte che custodisce le pecore». Nonostante il condizionale nella voce della ragazza c’è tutta l’ansia di un ordine, cosi, senza perdere tempo, i due si accordano per il mercoledì successivo, giorno di riposo della ragazza, per salire ai pascoli alti del Portule e incontrare la pastora.
Il giorno in cui il vecchio e la ragazza salgono a trovare la pastora, è di quelli che il Signore del mondo regala ogni tanto (con parsimonia) agli umani per consolarli dell’esistere. Cuscini di giacinti selvatici e botton d’oro finiscono a ridosso dell’ultimo fazzoletto di neve che un sole ormai d’estate fa luccicare come un solitario sull’anello di una sposa all’altare. Le pecore pascolano tranquille, batuffoli di lana trasportate qua e là dalla brezza di quota; sì, non poteva che essere così quel paradiso che gli uomini e le donne si sono giocati per un frutto acerbo.
La pastora è intenta ad arrostire una grossa fetta di polenta sulla piastra del focolare quando loro semplicemente spingendo la porta socchiusa entrano, la donna appena riconosce Pietro gli corre incontro a lo abbraccia e poi riconosce Clio. «Anche se non ti ho mai vista so chi sei, Pietro mi ha fatto vedere il tuo disegno e mi ha parlato di te a lungo» La ragazza di città tende la mano e con meraviglia riceve in cambio la stessa stretta forte che le era solito dare, ma mai di riavere. È emozionata Clio, emozionata e curiosa, ha voglia di conoscere nei più piccoli particolari la vita dei pastori, va avanti e indietro, è un naufrago che finalmente appoggia il piede sulla terra ferma, ogni cosa la attrae e la incanta.
La pastora aggiunge alcune fette di polenta sulla piastra e dei grossi pezzi di tosella, quel cibo rustico arrostendo sfrigola e nella hütt si spande un profumo che da solo vale un’amicizia. In mezzo alla tavola compaiono per magia anche due bottiglie di quel vino illegale che colora di viola le labbra, il Clinton, che in Altipiano spesso chiamano Grinto, un nome che gli si adatta meglio. La donna di Bosnia non si toglie il cappellaccio con paraorecchie, ché in montagna anche le giornate più luminose nascondono un brivido di freddo. Mentre mangiano, il vecchio pilucca come farebbe un uccellino troppo sazio di milio e sole, la ragazza di pianura si incanta ad osservare la donna di Bosnia e quasi furtiva traccia segni con la piccola matita sopra fogli da acquerello. Finito di mangiare Clio non riesce più a tacere: «Devo farti un ritratto, ma un ritratto vero, non un semplice disegno come quello che ho regalato a Pietro, voglio fare un dipinto a olio e mi dispiace ma ci vorrà del tempo e tu dovrai avere molta pazienza con me.»
Quell’estate, Pietro lo viene a sapere dal gestore della pizzeria, Clio aveva preso l’abitudine di raggiungere la pastora ogni giorno libero e sul finire di agosto con la fine del periodo di maggior lavoro, aveva lasciato la pizzeria e si era trasferita armi e colori sulla montagna “con quella delle pecore” gli dicono.
Una domenica mattina di inizio settembre Pietro si decide di andare a trovare le due donne, infila nello zaino un paio di quelle bottiglie di vino forte che avevano fatto loro compagnia la volta precedente, telefona alla pastora e si fa dire dove si trova con il gregge e con passo sicuro si mette in cammino. Il gregge gli viene incontro verso mezzogiorno, ormai a mezza montagna, dalle parti del Tèrmar. È gioia vera quell’incontrarsi in un crocicchio di strade, tra Trentino e Veneto, dove un tempo correva l’antico confine tra gli imperi centrali e la serenissima repubblica di San Marco e che festa di polenta e formaggio, seduti accanto al furgone Volkswagen. La pastora non si toglie il pesante giaccone di pelle imbottito, ché in montagna anche la più serena delle giornate può finire in un brivido di freddo… Parlano di pecore, e della lana che non la vuole più nessuno e che bisogna pagare per smaltirla come rifiuto speciale e che ormai l’unico guadagno di un gregge è la vendita degli agnelli da carne, una cosa che farebbe mordere di rabbia Tönle Bintarn: «Gli agnelli sono nati per crescere e fare lana non per finire nel piatto dei signori ufficiali.» diceva sempre l’antico pastore. Parlano di pittura e di come certe volte la montagna si mostri proprio come un quadro di Giovanni Segantini, il pittore di Arco che visse a Maloia in Engadina, grande ritrattista di pecore e vacche. Parlano a lungo della passione di Clio per la montagna e per le sue bestie e di come avesse deciso di rimanere a dare una mano alla pastora per il prossimo autunno, poi si vedrà.
Pietro non lo da a vedere ma è già da un po’ di tempo che vede la donna vestita di nero strisciare guardinga tra un larice, un ginepro e i maestosi abeti bianchi, non vuole essere vista e solo chi sa di bosco può individuarne di tanto in tanto il suo apparire. Pietro attende il momento opportuno, quando la donna esce dalla macchia e rimane per un attimo allo scoperto in una radura.
«Khennt Stinele, zo trinkha an slunt boi.» La signora cimbra alza un braccio per saluto e di risposta all’invito di bere un goccio di vino, conosce il vecchio con la barba bianca e sa di potersi fidare, porta sempre un vino robusto e forte che non toglie la forza, ma da coraggio. Non si perde in inutili smancerie la donna vestita di nero com’è d’uso tra gente di montagna, sorride appena alle parole nell’antica lingua pronunciate dalla ragazza di città, beve il suo vino in un solo sorso e allunga il bicchiere per averne dell’altro, mentre con il dorso della mano si asciuga le labbra, poi come colpita da un pensiero cattivo si stringe forte nello scialle nero, un brivido senza preavviso le fa accapponare la pelle. Saluta appena, la donna, mormorando Vorgèll’z Gott: che Dio ve ne renda merito e va via a piccoli passi veloci, appena oltrepassata la curva del sentiero, traccia nell’aria un segno della croce ampio e solenne e pronuncia uno scongiuro potente come nemmeno di fronte alle tentazioni del maligno aveva mai fatto.
Il gruppetto segue per un attimo l’ombra nera di lutto tornare a confondersi con gli spiriti inquieti della foresta.
Pietro lascia le due donne quando ormai il sole è scomparso da un po’ oltre la piana di Vezzena. La giornata è stata buona e felice ma una strana sensazione accompagna l’uomo delle montagne come se qualcosa quel giorno non fosse stato detto, e poi che strano, Clio non gli aveva mostrato qualche suo lavoro, il ritratto della pastora per esempio, non ne aveva nemmeno accennato. Stringe forte la cacciatora, per un attimo anche lui avverte un freddo strano per quella stagione e una striscia di nebbia sale prepotente nel cuore della valle.
Non passano molti giorni e le notizie questa volta, Pietro, non deve andare a cercarsele, ne parlarono in molti sull’Altipiano e qualcosa ne hanno scritto anche i giornali nella cronaca locale, incidente hanno scritto, inspiegabile hanno anche aggiunto alcuni.
È una lunga pena, l’attesa del gregge in quei giorni di novembre, per il vecchio che vegliava sulle stagioni e contava i metri di neve accumulati negli anni. Ma una mattina, puntuali, le pecore di razza foza si presentano pacifiche e silenziose attorno alla casa del montanaro, il furgone Volkswagen è guidato dall’uomo generoso che aveva dato il gregge alla donna di Bosnia, a piedi Clio da qualche voce ai cani. Non c’è festa nell’incontrarsi, tutti hanno gli occhi nascosti, solo Clio infrange il silenzio quando diventa troppo doloroso da reggere, lo fa con una domanda che non può avere risposte: «Perché?».
Troppo dolore vorrebbe dire il vecchio, troppo dolore; il dolore non passa, si inabissa e scava l’anima in profondità sino a che non rimane che un guscio vuoto che puoi gettare dall’alto di una roccia senza nemmeno un grido.
Ne passano ancora di giorni, prima che la ragazza di pianura si decida di bussare alla porta della piccola casa, tiene in braccio qualcosa di ingombrante, che quasi le cade per terra nell’ansia di stringere con entrambe le mani quelle del vecchio: «Credo che lei avrebbe voluto che lo tenessi tu il suo viso sulla tela, non sono stata brava come credevo, ne ho dipinto gli occhi ma non sono riuscita a trattenerne l’anima, alla fine lei ha fatto quello che ha creduto giusto fare e se ne è andata portandosi dietro lo zaino segreto che la accompagnava da quei giorni di Srebrenica». La ragazza si passa la manica della maglia sugli gli occhi come per asciugare le lacrime, ma gli occhi rimangono secchi.
«Tieni le mie pecore, così mi ha detto, sono state le sue ultime parole, ed io è questo che farò».
«Già» la sola parola detta dal vecchio, mentre scruta attento quegli occhi leggermente allungati resi sulla tela da pennellate rapide e nervose intrise di blu oltremare, non aveva mai notato quanto su quel volto, in quegli occhi di notte scura si leggesse lo spirito slavo.
Cosi finisce questa storia, cosi finisce il racconto di me che ho visto e scritto, così finisce di raccontare il contastorie, ma per una volta, solo per questa volta a te che leggi chiedo un favore, lascia che usurpi il nome di scrittore e da scrittore di fantasie lascia che scelga io il finale di questa storia e io non permetterò che sia questo il finale e mi arrogo il diritto di scriverne un altro.
Dalla cima della montagna dal nome incantato da dove Musil guardava verso la Laguna e da dove nei giorni sereni si può vedere il Campanile di San Marco, il vecchio con la barba bianca tiene gli occhi chiusi a taglio per seguire il lento andare di un gregge attraverso la grande pianura e in fondo all’orizzonte, una pioggia d’oro cade sui marmi delle chiese millenarie, due ragazze seguono le pecore, ogni tanto si spintonano, poi giocano a rincorrersi, le loro risate d’argento arrivano sin quassù, il vecchio sorride, tira una grossa presa di tabacco e si lascia scappare un sospiro: «Beata gioventù!»
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» fine «