Racconto

Quattro anni non sono pochi

testo e foto di Federico Ravassard

01/01/2019
5 min
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Ehi, amico mio. Te la ricordi ancora quella volta in inverno sul Rocciamelone?

Io si, e credo anche tu. Eravamo più giovani e un po’ più coglioni a pensare di voler sciare lì a gennaio. Eravamo anche più leggeri. Non ci eravamo ancora presi certi schiaffi e, a quell’epoca, a turbarci erano pensieri che oggi sapremmo scansare meglio. Te la ricordi, amico mio, la salita del primo giorno? Mi ci rivedo, con i ramponi su per il crinale di erba ghiacciata, sballottati tanto dal vento quanto dalla vita, ma allo stesso tempo fomentati a vicenda dalla nostra eccitazione.

Chi lo ha fatto almeno una volta sa quanto bello è urlare nella bufera, i cristalli di neve sulle guance ti fanno sentire vivo. La sera, da lassù, le luci dei grattacieli di Torino apparivano lontane e sfumate come i problemi che avevamo lasciato duemila metri sotto di noi. Perché lo sapevamo entrambi, senza dovercelo dire, che a spingerci a dormire in quel bivacco gelido non era stato tanto il desiderio di un exploit scialpinistico, ma la necessità di nascondersi, almeno per due giorni, da tutto e da tutti. Tu stavi scappando, credo, dal peso di una carriera universitaria che faceva a pugni con la tua voglia di respirare l’aria fredda delle mattine di gennaio, e forse anche da problemi con persone che nessuno al di fuori di te poteva capire. Io stavo procrastinando il momento in cui avrei dovuto decidere cosa avrei voluto fare ed essere in un futuro più o meno prossimo, o almeno il prendere atto che la mia strada sarebbe stata diversa da quella dei miei coetanei; stavo anche scappando da chi aveva sopravvalutato il tipo di persona che ero.

A differenza di quello che si dice in giro, non serve un gran cuore per scalare una montagna, piuttosto una buona dose di egoismo misto a vigliaccheria. Gli alpinisti si credono esseri superiori, ma, come hai imparato a tue spese, il vero coraggio sta nel decidere di affrontare la noia di una vita normale, rendendoci disponibili ad aiutare qualcuno che non sia il nostro compagno di cordata. Ci vogliono più palle a mettere una cravatta, piuttosto che un imbrago.

Il mattino dopo avevamo ripreso la salita all’alba, mentre le nuvole sotto di noi si coloravano di luce dorata. Ovviamente la parete non era bene innevata – come avrebbe potuto esserlo, a gennaio? – ma la cosa non ci aveva turbato più di tanto. L’importante era essere lì, soli nel raggio di chilometri, irraggiungibili dalla rete cellulare e dal peso delle responsabilità. Eravamo scesi sciando in qualche modo, e, arrivati all’auto, eravamo rientrati in città, a fare i conti con quelle che erano le nostre vite di ventenni con l’anima in tempesta. Poi, di cose, nel corso degli anni, ne sono successe parecchie. Abbiamo preso le nostre strade, tu di sicuro quella più ripida. Abbiamo conosciuto il dolore e siamo diventati un più cinici, forse diventare adulti significa proprio questo.

Quest’anno ci sono tornato, su quella montagna. In primavera, come gli altri prima di noi avevano sempre fatto. Quando sei giovane vuoi solo nuotare controcorrente, a costo di fare le cose nel modo sbagliato e sbatterci contro il muso. Non vuoi riconoscere l’idea che se i vecchi agiscono in un certo modo, forse un po’ di ragione ce la dovranno pure avere. Eravamo in tanti a salire al buio su di lì, facendo a gara con il sole che presto avrebbe cominciato a scaldare la neve. Siamo arrivati al tratto finale di cresta, quella che quattro anni fa mi aveva dato da pensare, sentendo i ramponi grattare sulla roccia. Ho accelerato il passo e mi sono portato in testa al gruppo. Volevo essere il primo ad arrivare in cima, non per spirito agonistico, ma perché volevo stare qualche minuto da solo in vetta, e così è stato.

Amico e fratello mio, ti avrei voluto lì con me. Mi sono fermato nel punto più alto di quella montagna e, con il cuore che batteva a tutta per lo sforzo, mi sono inginocchiato, piantando le piccozze davanti a me. Nel giro di pochi secondi ho rivissuto tutto ciò che era successo tra la prima e la seconda volta in cui mi ero ritrovato in quel punto con gli sci sullo zaino. Ho rivissuto le delusioni, le piccole e grandi vittorie personali di entrambi, i sorrisi di chi non c’è più e di chi è arrivato dopo. Quattro anni di vita saltati a galla rimettendo i piedi su quella cima.

Ho respirato più lentamente e ho sentito gli occhi inumidirsi. Cazzo, ci credi che ho davvero pianto?
Dopo un paio di minuti sono arrivati anche gli altri a riportarmi alla normalità, ignari del momento che avevo appena vissuto – benedette siano le lenti a specchio. Due chiacchiere, poi via i ramponi e dentro gli sci, per cominciare quella discesa lasciata in sospeso dal gennaio di quattro anni fa, quando quel lenzuolo bianco aveva riflessi più neri.

Federico Ravassard

Scrivo, fotografo, vado in montagna. Non per forza in questo ordine.


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