Dal sacco piuma mi affaccio sul mondo, la notte è stellata. Con fragore le acque del torrente si riversano nel lago, un riverbero sonoro si propaga nel buio trapunto di richiami, fischi e trilli.
Il profumo di resina e di terra zuppa, giunge pungente alle narici. L’odore acre della fatica e dell’adrenalina, restituito dal corpo e dai vestiti, persiste a testimoniare il cammino e le tortuose geografie percorse. Osservo, ascolto, annuso. La neve si scioglie, la natura si risveglia. La primavera avanza prepotente come il giorno che sarà.
Il tavolo di legno su cui sono steso è duro, oltre il nero profilo degli abeti il cielo è blu profondo, vi immergo lo sguardo e libero i pensieri. Mi concentro sul respiro, lo prendo e lo porto a spasso per il corpo. Risveglio i dolori e gli indolenzimenti che si annidano tra carne, articolazioni ed ossa. Con pazienza cerco di sciogliere le tensioni ma nulla accade. Dopo cinque giorni non posso pretendere di svegliarmi riposato e tonico.
Abbiamo seguito una linea immaginaria attraverso le Orobie, sulle tracce di Franco Maestrini e Angelo Gherardi. I due pionieri dello scialpinismo bergamasco le attraversarono per la prima volta nel 1971. Nella neve abbiamo disegnato il nostro sentiero, una cucitura sinuosa ed effimera a ricamare il candore che veste i monti di casa. Ieri, dopo quattordici ore sugli sci, siamo arrivati spossati sulle sponde del lago di Scais.
Oggi non mi preoccupa la stanchezza ma una sottile angoscia, una lama tagliente tra i pensieri. Cerco di scansarla ma è tutto inutile. È un’inquietudine profonda che fatico a contenere, allora provo a decifrarla. Metto a fuoco le immagini che mi hanno tormentato nel dormiveglia: la lunga scivolata sul pendio ghiacciato, l’ancoraggio della doppia che salta, il versante che collassa in una valanga e mi travolge. Scenari angoscianti misti a brandelli di sonno, ogni azione si trasforma in incubo e volge in tragedia. Rivedo ogni minimo dettaglio, risento i suoni e le voci, tutto è bianco e dopo c’è solo nero e silenzio. Ora sono sveglio. Ricompongo gli incubi in una cornice coerente, ne prendo le distanze. Solo così posso dare un nome alle mie paure, guardarle in faccia e conviverci. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo ma se resto consapevole delle mie scelte e sempre disposto a rinunciare, allora sarò in grado di affrontarlo lucidamente.
Oggi ci attende la tappa più impegnativa. Sino qui la vecchia carta con le tracce scialpinistiche di Beniamino Sugliani ci ha indicato la strada. Ora, per superare la corona dei tremila orobici, purtroppo non ci fornisce alcuna informazione. Non ci resta che seguire le scarne indicazioni raccolte dal diario e dal film che documentano rispettivamente le traversate del ‘74 e del ‘80.
Ci alziamo e controvoglia infiliamo i piedi negli scarponi freddi e bagnati. Gli zaini sono pronti, un ultimo sorso di caffè e partiamo. Nessuno parla, ognuno è chiuso nei suoi pensieri. Al rifugio Mambretti lo sguardo percorre l’intero versante nord che incombe tetro sulla vedretta di Porola. Tutto appare ripido e inaccessibile. Le paure riaffiorano, ma io so che si passa. Fra poco, con la prima luce, il percorso apparirà evidente. Non c’è motivo per preoccuparsi, ma dentro di me la parte razionale continua ad azzuffarsi con i miei fantasmi. Mi aggrappo al rumore metallico dei rampanti che mordono la neve, passo dopo passo con un ritmo che tiene compagnia e infonde sicurezza. Gli amici mi staccano, li osservo, sagome in controluce. Folate gelide spazzano il pendio di neve ghiacciata. Il sole si alza sopra i vapori che si dissolvono lungo le creste. Lame radenti di luce riverberano sulla superficie scintillante. Con attenzione continuo a salire, passo dopo passo, curva dopo curva, sino a ricongiungermi agli amici. La bocchetta del Pizzo Porola è poco distante, solo un colatoio di ghiaccio ci separa da quel luogo dove si deciderà la riuscita della traversata. Un intaglio di pochi metri quadrati incastrato tra le rocce: terra incognita, non solo disegno geografico sulla mappa ma, soprattutto, luogo interiore in grado di condizionare il mio sentire e risvegliare paure viscerali.
Calziamo i ramponi e saliamo. Il vento è forte, fa un freddo fottuto come mai è stato nei giorni precedenti. Marco giunge alla bocchetta, si volta con un segno di assenso. Arrivo subito dopo. Mi affaccio, il canale è ripido e si perde tra le nebbie. Dovremo prestare attenzione. Si passa. Tutte le preoccupazioni ed i dubbi che mi hanno accompagnato in questi sei giorni, le paure ed i timori che mi han fatto visita nella notte si stemperano. Sorrisi e strette di mano, poi i primi passi in discesa per trovare il posto giusto dove calzare gli sci, infine la sciata liberatoria in cui si sciolgono le ultime tensioni. Ancora parecchia è la strada da fare. Sulla vedretta del Lupo, dopo un ultimo sguardo alla parete discesa, con una rinnovata leggerezza riprendiamo il cammino.