Il silenzio delle Ande peruviane non è sordo solo per il vento che suonava le foglie degli alberi di eucalipto.
I cactus invece non si muovevano mai e caricavano la pazienza dei padri che aspettano i figli. L’isolamento mi seduceva. Solo una donna quechua mi visitava una volta al giorno, sembrava portare negli occhi il segreto dell’esistenza umana. Certe volte arrivava con le due figlie che frugavano curiose nel mio zaino impigliandovi le lunghe trecce nere: «Dove si trova la tua casa? L’Italia è in Brasile? E ci sono le piante di mais? Ti manca la mamma? Perché sei qui?».
Volevo saperlo anche io, cercavo quelle risposte nella sacralità delle usanze inca, nel guizzo delle pecore che raggiungevano le vette della cordigliera, nel fiuto delle vacche per l’erba fresca. Cercavo il silenzio che però mi consegnava il suono di centinaia di strumenti scordati. Dopo circa un mese raggiunsi la giungla. CayCay – Kosñipata: dove tornarono le albe delle domande e gli orizzonti delle risposte. I 300 km che azzerano l’altitudine dei 4000 metri diluendo le Ande con la giungla. Quei chilometri che con la permanenza nei posti di partenza e arrivo avrebbero per sempre mutato il mio essere ed esistere.
Nella riserva viveva una scimmia urlatrice perfettamente integrata con gli umani, solita a dormire con i volontari.
Correva la camionetta sui fianchi ondeggianti e fascinosi delle Ande mentre la mia nausea aumentava con la polvere. Una donna prese il lembo del suo scialle, lo inzuppò di liquore, lo appiccicò sul mio naso. Poco dopo inserì nella mia bocca un pugno colmo di foglie di coca: «E’ la nostra medicina. Il viaggio è ancora lungo». Pensavo a quanto la giungla fosse esigente, non bastavano le migliaia di chilometri percorsi lungo il suo perimetro partendo dal Nord-Est brasiliano, la vita essenziale che avevo imparato a condurre, i virus intestinali. La nausea si calmò nelle pause per il recupero delle valigie che cadevano dal tetto. Mi lasciarono insieme all’arrivo della notte nella riserva Chontachaka. Percorsi l’unico sentiero fino al fiume che separava la casa, una corda e un carrello in sospensione mi indicavano la strada.
Nadia mi vide da lontano e fece segno di saltare sul carrello, lei avrebbe tirato dall’altra parte. Mi mostrò l’alloggio, una struttura senza finestre con le fondamenta in legno rialzate. Scelsi il letto con la zanzariera meno danneggiata. Mi comunicarono che nella riserva viveva una scimmia urlatrice perfettamente integrata con gli umani solita a dormire con i volontari. Dopo la cena raggiunsi il dormitorio, ero da sola. Posizionai una candela sul comodino vicino al letto, sistemai con attenzione certosina la zanzariera, mi infilai sotto le lenzuola. La giungla, la giungla di notte, la notte nella giungla. I suoni esplodono con delicatezza nella notte della foresta quando migliaia di esseri creano la più perfetta delle sinfonie realizzando un raro e magico spartito. Ero in una di quelle note. Sentii dei passi leggeri, ero spaventata, si avvicinavano sempre di più al mio letto. La zanzariera perse la tensione in uno degli angoli, ero terrorizzata, sprofondai in una impercettibile apnea. Qualcuno stava prendendo posto nel mio letto, era la scimmia, si chiamava Paula.
Mi sentivo una farfalla, ma non lo dissi a nessuno. Percorrevo i sentieri scalza, mi immergevo nuda nelle piscine naturali che disegnava la corrente.
«Perché sono arrivata in un posto tanto ostile all’uomo? Cosa ci faccio nella notte della giungla senza elettricità, senza acqua corrente, senza linea telefonica?». Quella paura conteneva le mie ferite ancestrali, desideravo conoscerle e liberarle. Mi placai mentre tenevo la scimmia per mano. Un nuovo e caldo equilibrio si tuffò nel mio interiore. Ero nella giungla che mi riconsegnava a me stessa. Nemmeno il grosso ragno appartato nei giochi di ombra dello stoppino infuocato mi tormentava. Respiravo l’universo con il polmone della terra. Dormii per 12 ore. Paula era ancora al mio fianco al risveglio, e lo fu per il resto delle settimane. Mi ammaliava avere il ventre avvolto dalla stessa coda che penzolava di giorno dalle nuvole di palma, non m’importava delle sue pulci. Mi sentivo diversa e consacrai quella nascita in un battesimo nella cascata che diventò la mia sala da bagno.
Gridavo la voce della bimba interiore che finalmente aveva ripreso spazio. Mi sentivo una farfalla, ma non lo dissi a nessuno. Percorrevo i sentieri scalza, mi immergevo nuda nelle piscine naturali che disegnava la corrente, rispettavo gli innumerevoli pericoli, lavoravo al monitoraggio della riforestazione. Certi pomeriggi ascoltavo la pioggia tropicale che giocava inseguendo i colibrì. Avevo la compagnia dell’infinità degli esseri invisibili che popolano la giungla in un singolare inno alla vita. Mi dicevano che somigliavo a una farfalla. Fu il sentiero dell’incanto per le minuzie della vita e per la libertà interiore. E furono le Ande, da dove partii, a cullare il bruco. E fu la giungla, dove arrivai, a prenderlo in consegna. Lo spirito di Pachamama fece il resto.
Capirti è un privilegio. Non capirti è ignoranza.