Tolmezzo, giovedì 1 novembre 2018
In due giorni ha piovuto come fossero tre mesi
Continua a piovere anche adesso che scrivo, ma gli scorsi giorni è stato peggio.
In particolare lunedì, verso sera, i territori delle Alpi Carniche, dove più dove meno, sono stati teatro di una catastrofe naturale senza precedenti, almeno a memoria personale.
Ho vissuto l’evento nella mia casa di Tolmezzo. Tutto è cominciato con la pioggia battente, accompagnata da vento di scirocco, di quello che fa alzare le temperature oltre la media e che d’inverno scioglie la neve sulle cime. Anche nei giorni precedenti il sisma del ‘76 le giornate erano stranamente calde. La gente non dimentica certe sensazioni dove l’angoscia è stata cullata dal terrore e prima di quest’ondata di mal tempo, la scorsa settimana, la corrente di fohn caldissima ha come anticipato una nuova sventura. Solo che stavolta s’è presentata sotto forma di acqua dal cielo, tantissima, in due giorni ha piovuto come fossero tre mesi. E vento, come non s’era mai visto.
Come se un pettine gigante avesse rastrellato i boschi
La sera di lunedì ho avuto paura per la prima volta in vita mia di un evento atmosferico.
Dagli abbaini della mia casa, nel sottotetto, ho potuto sentire quel vento straniero che di lì a poco avrebbe distrutto tutto come un rullo compressore. Nella conca di Tolmezzo c’è stato il preludio, qualche danno a tetti e coperture, lamiere volate via ma, in fin dei conti, nulla di troppo serio. L’ho sentito prendere a spintoni le case del mio paesello e scapparsene via verso le montagne, accompagnato dall’acqua dei nuvoloni che si portava appresso. Le valli e le dorsali Carniche lo hanno poi trasformato in una vera e propria bufera. Un uragano che ha steso a terra tutto quello che s’è trovato di fronte.
È arrivato dove nei giorni precedenti gli acquazzoni si sono succeduti senza soluzione di continuità ingrossando i torrenti a dismisura e saturando i versanti che, ironia della sorte, non vedevano pioggia da mesi. E tutto è venuto giù. Come la forza di gravità anche il soffio impetuoso ha steso le foreste orientando i fusti degli abeti nella medesima direzione. Come se un pettine gigante avesse rastrellato i boschi per metter ordine dirigendo tutti i fusti degli abeti nella stessa direzione.
Lunedì sera il culmine, tutto ululava
Martedì mattina ho potuto rendermi conto della gravità della situazione operando con il CNSAS nei vari paesi colpiti, trasportando medicinali o rilevando situazioni di potenziale pericolo a supporto della Protezione Civile. La Carnia è stata spezzata in due. Uno dei principali ponti della viabilità extraurbana è stato mangiato dall’impeto delle acque. Il torrente Degano, solitamente piuttosto cheto, è diventato portatore improvviso di materiali d’ogni genere dilavati dai monti con una furia mai vista prima.
Su verso il mio rifugio, in Val Pesarina, numerose frane si sono abbattute sulla strada causandone la chiusura in più punti. Diversi paesi sono rimasti isolati. Saltata l’energia elettrica, saltati i collegamenti telefonici. Come nel resto dell’intero territorio montano.
Cerco di salire verso il rifugio
Mercoledì, preoccupato per il De Gasperi ma già con una certa rassegnazione in cuore, cerco di salire verso il rifugio. Da subito mi avvertono che la strada è interrotta poco oltre l’ultimo paese della valle. Facciamo qualche chilometro oltrepassando cavi elettrici dell’alta tensione stesi sull’asfalto: numerosi piloni sono mozzati a metà altezza. Poco oltre un mezzo è intento a liberare la sede stradale dalle centinaia d’abeti caduti. Anche qui l’impressione è di una certa armonia in questa devastazione. Qualcuno lassù deve aver giocato a Shangai con le nostre foreste. Da lontano pare rotolata un’enorme biglia che, rimbalzando tra i versanti, ha steso sulla sua corsa tutto ciò che gli stava sotto. Come quando si giocava da bambini con le biglie in spiaggia, ma qua si parla di interi versanti delle montagne. Per raggiungere il parcheggio estivo, dove si arriva in automobile, impieghiamo circa un’ora di cammino. Un’ora di complicati sbrogliamenti tra ramaglie e tronchi mozzati. Un inferno.
La neonata stazione sciistica di Pradibosco nemmeno inaugurata pare già da buttare: alberi abbattuti sull’impianto, seggiolini sputati a decine di metri dai cavi, metalli spezzati battuti dal maglio della bufera.
Queste erano le “scale di casa nostra”
Cominciamo a salire. Quello che era un sentiero fino a qualche giorno fa, diventa un irriconoscibile versante devastato. Ho percorso questi boschi centinaia di volte oramai, con il mio socio queste erano le “scale di casa nostra”, avevamo dato un nome ad ogni sasso a forza di vederli. Adesso non capisco nemmeno dove sono, a stento trovo il percorso giusto. E ci impieghiamo un’eternità. Lo sconforto prevale, tutto è demolito ed abbattuto. Gli alberi versano radici all’aria, con fatica continuiamo a salire. In un traverso in quota il sentiero si è abbassato di dieci metri, in un punto pare intatto ma di fatto è scivolato dalla sua sede naturale perché coinvolto in quello che capiremo essere un grosso smottamento dell’intero versante.
Giungiamo al rifugio. Incredibilmente solo un po’ di acqua è filtrata all’interno dal tetto ma la struttura e le finiture paiono aver retto; i vecchi una volta sapevano il fatto loro in fatto di edilizia. Verso la teleferica, cordone ombelicale indispensabile per la gestione, le casette di servizio sono state scoperchiate e sventrate senza remore. Alcune apparecchiature elettriche di fondamentale utilizzo sono finite sott’acqua. E c’è già la neve.
Rientro a valle. In questo cimitero verde oggi lascio una parte del mio cuore.
C’è una splendida essenza di resina che pervade ogni spazio, avrei preferito non sentirla.
– Omar Gubeila