Intervista

LE INTREPIDE DEL MERU

testo Roberta Orsenigo (foto spedizione Meru 1983)

Le alpiniste della prima spedizione italiana femminile in Himalaya (maggio 1983)
03/09/2025
6 min
Avrei voluto esserci anch’io. Non sono un’alpinista, ma quanto mi sarebbe piaciuto far parte di quel gruppo di intrepide piene di entusiasmo.

Ci pensate? La prima cordata italiana di sole donne a caccia di una cima himalayana. Era il 1983 e l’alpinismo femminile era ancora un territorio poco raccontato, sminuito, per lo più ignorato. Ma quelle otto donne sono state delle pioniere a tutti gli effetti, in montagna come nel superare i pregiudizi di genere.

Dopo più di quarant’anni da quel tentativo di salita, Alessandra Gaffur(1), medico veterinario, alpinista, accademica del Club Alpino Accademico Italiano, me lo racconta ancora con emozione e un briciolo di nostalgia. E non è solo per i vent’anni di allora, età che regala quella sana spavalderia che ti fa credere di poter conquistare il mondo, ma per quell’atmosfera magica che si era creata nel gruppo. Chiamatela amicizia, sorellanza, ma quelle donne che arrivavano da percorsi diversi erano riuscite a trasformare un’idea temeraria in un progetto serio, importante. Unico.

L’idea che cambiò tutto
L’intenzione di scalare una montagna himalayana era arrivata da Silvia Metzeltin, geologa, alpinista, giornalista e scrittrice svizzera che sentiva la necessità di dare finalmente la giusta visibilità all’alpinismo femminile. «Conobbi la Metzeltin nel 1983, grazie ad Annelise Rochart, torinese del Gruppo Accademico Occidentale del Cai, che mi invitò a partecipare al raduno femminile Rendez-vous d’haute montagne2 ad Agordo, in Veneto, evento frequentato da alpiniste forti come Loulou Boulaz, Luisa Jovane, Nadja Fajdiga. In quegli anni c’era una voglia pazzesca di confrontarsi, di raccontare le proprie esperienze, di vivere la montagna senza cadere nella trappola della competizione», racconta Alessandra.
Fu proprio in quell’occasione che Silvia Metzeltin lanciò la proposta: formare una cordata tutta al femminile per un’impresa ancora da definire. «Ero giovane, 21 anni, ma avevo già compiuto tante salite importanti sulle Alpi. Siccome alpiniste più esperte avevano declinato la proposta – probabilmente pensavano fosse troppo azzardata – la scelta cadde su di me e altre donne non professioniste».

Oltre ad Alessandra Gaffuri, allora studentessa di Medicina veterinaria e alla Metzeltin, la cordata era formata da Nadia Billia Moro (accompagnatrice di trekking), Annalisa Cogo (medico), Laura Ferrero (educatrice), Oriana Pecchio (medico), Mariola Masciadri (giornalista), Annelise Rochat (insegnante di Lettere).
Otto donne, otto storie diverse, un sogno comune: dimostrare che l’Himalaya non era solo una questione maschile.

Destinazione: Monte Meru, 6672 metri
Scartata la prima idea di affrontare una montagna in Bhutan – il governo aveva già rilasciato il permesso a una spedizione femminile giapponese e non c’era voglia di sovrapposizioni – la scelta cadde sul Monte Meru, montagna della regione himalayana del Garhwal, nello Stato indiano dell’Uttarakhand.
Formato da tre picchi con altezza massima di 6672 metri, il Monte Meru è conosciuto per il caratteristico pilastro a forma di pinna di squalo (Shark’s Fin), che rende la parete una delle più dure per difficoltà tecnica. Come scrissero nel comunicato stampa dell’aprile 1983:

“Il Monte Meru, montagna sacra della religione induista nella quale simboleggia il centro dell’Universo, è esteticamente affascinante, ma anche molto impegnativo dal punto di vista alpinistico. Un’impresa non certo priva di difficoltà se si tiene presente che è la prima volta che si tenta la scalata del Meru in periodo pre-monsonico. Inoltre, fino ad ora l’Italia non è mai stata rappresentata da una squadra composta da sole donne”.

Monte Meru (6672 m) è montagna della regione himalayana del Garhwal, nello Stato indiano dell’Uttarakhand.

Il clamore mediatico
La prima spedizione alpinistica italiana di sole donne sarebbe dunque partita il 12 maggio 1983. La presentazione ufficiale avvenne sulla Terrazza Martini di Milano il 28 aprile dello stesso anno e la notizia ebbe una risonanza che nessuna di loro si aspettava. Come scrisse Mariola Masciadri, Direttrice responsabile de Lo Scarpone1, il notiziario ufficiale del CAI: «L’avvenimento ha scatenato una campagna-stampa del tutto imprevista poiché le componenti intendevano solo organizzare una spedizione femminile nel senso di essere amiche invece che amici. Ma essendo la prima spedizione italiana, gli organi d’informazione si sono lanciati sulla primizia e il fatto ha avuto numerosi e incredibili riscontri sulla stampa nazionale. Fotografate come modelle, vestite dei più sofisticati indumenti, fatte oggetto di interviste e servizi giornalistici, le protagoniste si sono sentite un poco spaesate: vogliamo solo vivere un’esperienza in amicizia femminile, non femminista. Ci piace la solidarietà che è nata spontaneamente fra noi, ci piace assumerci le nostre responsabilità, ci piace vivere da amiche, da sorelle, questa meravigliosa e sempre sognata avventura himalayana. Non c’è molto da dire! Le cose semplici non hanno bisogno di commenti o di panegirici. Come ha detto Messner, e scusate se è poco, il direttore di un periodico alpinistico deve provare in prima persona quello che pubblica e io mi sono modestamente adeguata. Con affetto e simpatia il vostro direttore responsabile. (Veramente responsabile?)».

«Per la Masciadri la spedizione aveva assunto un valore personale immenso», racconta Alessandra, «visto che aveva deciso di farne parte dopo essere stata reduce di un grave tumore al seno. La notizia era comunque stata così amplificata dai media che un giorno il postino mi consegnò una lettera il cui indirizzo era semplicemente ‘All’alpinista in partenza per la spedizione’: una panettiera di un piccolo paese mi augurava buona fortuna», ricorda sorridendo Alessandra.

Alla ricerca di sponsor
«Ci mettemmo subito alla ricerca di sponsor a supporto della spedizione. C’era un grande affiatamento nel gruppo e ognuna di noi dava il suo contributo. Avevamo stampato delle brochure che distribuivamo, si può dire, a porta a porta. Non c’era una gerarchia prestabilita, anche se la figura di riferimento era Silvia Metzeltin. Ognuna di noi aveva il suo compito e una motivazione propria. Per me, che ero la più giovane, c’era semplicemente la voglia di vivere una grande esperienza».
Tra le aziende che decisero di scommettere sulla quella cordata femminile c’erano: Camp per le attrezzature, Ciesse per i piumini, Ferrino per le tende, Zanetti per i formaggi e persino Gibipharma per l’integrazione alimentare. Perché sì, l’impresa doveva avere anche un valore scientifico: i due medici del gruppo, Oriana Pecchio e Annalisa Cogo, avrebbero infatti monitorato i parametri di tutte, mentre ogni boccone veniva pesato e registrato.

L’avventura inizia
«Le prime a partire fummo io e Nadia Moro. A Nuova Delhi organizzammo la logistica, la squadra di cuochi e portatori. Il caso volle che anche il nostro ufficiale di collegamento fosse una donna». Era il primo viaggio in aereo per Alessandra, il primo in un Paese così lontano. «Rimasi colpita dalla città indiana, piena di contraddizioni ma affascinante. Essere lì era quasi un miracolo, considerando i problemi per avere il permesso di salita della montagna e la mancanza di sponsor fino a due mesi dalla partenza».
Il gruppo partì in autobus per l’avvicinamento: 350 chilometri e un viaggio da incubo di sei giorni non privo di imprevisti. Poi un trekking fino al campo base, a 4200 metri, una vasta pianura piena di neve e avvolta dalla nebbia. «Nei giorni seguenti iniziammo ad organizzare i trasporti per attrezzare il campo 1 con il materiale da alpinismo, le tende e i viveri. E qui la Masciadri si rivelò un tesoro nascosto: era un’ottima cuoca e preparava cibo italiano, visto che nelle nostre scorte non mancavano spaghetti, provola e grana. Conoscendo la mia passione per il Vov, aveva persino portato una borraccia solo per me». Una volta sistemato il campo, le alpiniste iniziarono ad attrezzare la via per arrivare in vetta.

In cammino verso il Monte Meru

Quando la montagna dice no
Fin da subito, la scalata si rivela però più ardua del previsto. «Non era solo una questione di difficoltà tecnica, ma di pericolosità. Il canale che avremmo dovuto attraversare per arrivare alla parete era esposto a est e quindi la neve che si raccoglieva durante la notte iniziava a sciogliersi già dalle prime ore del mattino, scaricando rocce e materiali vari. I numerosi tentativi falliti e il perdurare del cattivo tempo, chiaro segnale dell’arrivo imminente delle piogge monsoniche, ci fecero prendere la decisione definitiva di rinunciare alla vetta e il 19 giugno tornammo al campo base».
Delusione, tristezza, ma anche consapevolezza di averci provato e soprattutto di aver creato legami importanti. «Con il senno di poi penso che forse avremmo dovuto insistere, rischiare un po’ di più come ci aveva chiesto la Metzeltin, di sicuro la più delusa di tutte, perché dal suo ingresso nel mondo dell’alpinismo aveva sempre lottato contro i pregiudizi e le situazioni discriminanti. La riuscita dell’impresa avrebbe dato uno scossone al mondo alpinistico maschile. Ma la maggior parte di noi non se l’era sentita di correre rischi. Al nostro ritorno, la stampa non si preoccupò più di noi, ci invitarono a qualche serata ma niente di che. Il gruppo a poco a poco cominciò a sciogliersi e ci perdemmo di vista».

I pregiudizi che resistono al tempo
Che ci siano ancora preconcetti sull’alpinismo femminile, purtroppo, è una realtà. Se ne parla, certo, ma mai con l’intensità con cui si celebrano le imprese maschili, anche quando falliscono. Sarebbe bello sentir parlare di alpinismo senza dover definire un genere, ma la strada è ancora lunga.
«Ricordo che nel 1986 Franco Guarda non credette che la guida alpina Giovanni Bassanini ed io avessimo completato la Gugliermina (Pic) Via Gervasutti con rientro in giornata, alle 20, al rifugio Monzino», racconta Alessandra. «Era convinto che una donna non potesse scalare una via così impegnativa così velocemente. Pensava avessimo mentito».
«Nonostante questo episodio, però, non è certo in montagna che ho subito le maggiori discriminazioni. Anzi, posso affermare che proprio in montagna mi sono realizzata come alpinista e come donna», conclude Alessandra.

L’eredità di un’esperienza
«Cosa mi ha insegnato la spedizione al Monte Meru? Innanzitutto ho vissuto un’esperienza unica, dal clima che si era creato tra di noi ai luoghi fantastici che ho potuto visitare. Avevo 21 anni, stavo studiando Medicina Veterinaria e avevo altri progetti oltre a quelli dell’alpinismo e quindi incassai bene la delusione. Capii però che il professionismo non sarebbe stato per me, che avrei continuato a scalare da sola per il puro piacere di farlo, senza la necessità di avere sponsor e senza dovermi giustificare. L’esperienza in India diede comunque una svolta al mio alpinismo e cominciai a scalare un po’ ovunque nel mondo. E difatti dopo la laurea mi regalai un viaggio nella Yosemite Valley e la mia prima big wall sull’Half Dome.

Perché questa storia meritava di essere raccontata?
Lo ammetto: ho stalkerizzato Alessandra per mesi per convincerla a raccontarmi questa storia. Non essendoci fonti scritte, ho dovuto ricucire alcune sue informazioni con i comunicati stampa e con un articolo scritto di suo pugno per una rivista.
Ma perché insistere tanto? Perché di questa impresa straordinaria non se n’è parlato abbastanza (direi quasi mai). Provate a cercare online “prima spedizione femminile italiana Himalaya 1983” e vedrete che si trova ben poco. Qualche riga qua e là, accenni fugaci.
Perché il vero successo della spedizione al Monte Meru non si misura in metri di altitudine conquistati, ma nel coraggio di provarci quando tutti ti guardano come se fossi pazza.
E infine, perché ogni volta che una donna si è spinta oltre i confini del possibile, ha reso un po’ più facile il cammino per tutte quelle che sono venute dopo.
Questo mio piccolo tributo va a loro: ad Alessandra, Silvia, Nadia, Annalisa, Laura, Oriana, Mariola e Annelise. Pioniere vere, che hanno scalato molto più di una montagna. Hanno scalato il tempo e i luoghi comuni, regalandoci la possibilità di sognare un mondo dove essere “prime” in qualcosa non fosse più necessario.

«In quegli anni c’era una voglia di vivere la montagna senza cadere nella trappola della competizione», ha raccontato Alessandra Gaffuri.

Era la prima volta che una cordata tentava la scalata del Monte Meru in periodo pre-monsonico.

Dall’alto a destra scendendo: Laura Ferrero, Annalisa Cogo, Nadia Billia Moro, Alessandra Gaffuri, Oriana Pecchio, Silvia Metzeltin, Mariola Masciadri, Annelise Rochat.

Alessandra Gaffuri durante il suo recente viaggio in Nepal, un trekking intorno al Manaslu.

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1- Nata a Bergamo l’11 dicembre 1961, nel 1979 frequenta un corso di arrampicata organizzato dal CAI di Bergamo. Iniziano quindi le prime salite classiche in Dolomiti e al Monte Bianco. Nel 1981 si cimenta su falesie e vie impegnative: Verdon, Civetta (Via Carlesso alla Torre Civetta), Marmolada (via Vinatzer e via Don Chisciotte ), Monte Bianco (Diretta americana all’Aiguille du Dru, Pilastro Rosso del Bruillard per la via Bonatti, via degli Svizzeri al Grand Capuchin). Nel 1985 in Yosemitebaffronta la sua prima big wall sull’Half Dome l’anno dopo sale il Nose al Capitan. Nel curriculum: la via Bonatti al Petit Dru (ora franata), la Bonatti al grand Chapucin, la via degli americani alla Sud dell’Aiguille du Fou, lo sperone Walker via Cassin alla Nord delle Grandes Jorasses, la via Bonatti alle Petit Jorasses (forse era la prima femminile, ma non ho mai approfondito), la prima salita invernale al Diedro Machetto al Tour de Jorasses, una via nuova in Adamello, alla Punta Adami, nuove vie al Pizzo del Becco in Val Brembana. In arrampicata in falesia sale tiri fino al 6c/7a. Nel 1989 viene ammessa nel CAAI gruppo centrale: la prima donna ad entrare nel gruppo. Sempre in quell’anno tenta il Fitz Roy in Patagonia. Riprova l’anno seguente, arrivando a ¾ della via Franco Argentina. Ultima arrampicata internazionale, il Wadi Rum, in Giordania. da dicembre 2023 fa parte del consiglio del CAAI centrale, come vicepresidente.

2- Il Rendez-vous Haute Montagne nacque da un’idea della baronessa Felicitas von Reznicek, nel 1968, nel pieno delle lotte femministe. Lo scopo del raduno internazionale era quello di riunire per una manciata di giorni le migliori alpiniste europee per vivere assieme la montagna in tutte le sue forme.

3- Anno 53 Nuova serie n.9 – 16 maggio 1983

Roberta Orsenigo

Sono giornalista pubblicista, copywriter e autrice di testi per produzioni video.


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2 commenti:

  1. Arabella ha detto:

    Grazie per questo bel racconto.
    È giusto raccontare la storia dell’ alpinismo in tutti e suoi generi e in tutte le sue sfaccettature… La vita è fatta di vittorie e di sconfitte, ma se viene raccontata sempre e solo da chi vince ne sapremo sempre solo una metà.
    Chissà quante donne han tentato di fare, ma non lo sappiamo solo perché ci si sofferma sempre e solo sulla vittoria piuttosto che sul partecipare…
    Grazie davvero

  2. Roberta Orsenigo ha detto:

    Hai colto perfettamente il senso! La storia dell’alpinismo narrata solo dai vincitori è una storia scritta a metà. Ogni tentativo, ogni sogno spezzato, ogni volta che qualcuno ha osato provare: tutto questo fa parte del racconto vero della montagna. E ogni storia merita di essere raccontata, non solo quelle che si concludono in vetta. Quelle otto donne del ’83 hanno dimostrato che il coraggio si misura nel provarci, non solo nell’arrivare. Grazie per averlo capito. Roberta Orsenigo

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