Intervista

SCRIVERE MI HA SALVATO LA VITA

L'Everest tanto sognato, la malattia, la moglie Rosanna gli amici veri, la baita a San Vito. E i suoi diari scritti a mano. Ma che vita straordinaria quella di Mario Curnis!

testo di Roberta Orsenigo

24/02/2025
7 min
L'intervista a Mario Curnis l'avevo preparata nei minimi dettagli. Sapevo di incontrare una persona fuori dal comune e non volevo farmi cogliere impreparata.

Mi ero documentata a fondo: ho letto il suo libro “Diciotto castagne”(1), visionato vari filmati online con suoi interventi, cercato articoli su diverse testate e abbozzato una serie di domande sulla sua vita alpinistica e personale. Poi, una volta arrivata alla baita dove Mario vive con la moglie Rosanna Giudici, ho capito che non ci sarebbe stato bisogno di chiedere nulla. Le parole sono fluite naturalmente e ho realizzato che non sarebbe stata un’intervista come le altre.

Chi è Mario Curnis? Se lo chiedete a lui risponde: un muratore con l’hobby dell’alpinismo. Sarà stato anche un passatempo ma dal 1955, anno in cui fece la sua prima ‘vera’ arrampicata sulle vie lecchesi con Walter Bonatti, Carlo Mauri e Riccardo Cassin (non tre alpinisti qualunque), il Curnis di imprese ne ha fatte parecchie, soprattutto in invernale, quelle che lui considera l’alpinismo vero(2). E tutte pagate di tasca propria, senza sponsor. «Non ho mai dovuto dire grazie a nessuno», sottolinea.

La baita di Mario e Rosanna è un piccolo angolo di paradiso, almeno per chi ama la montagna e sa accontentarsi. Si trova nella frazione di San Vito del Comune di Nembro (BG). Ci si arriva in auto, percorrendo i tornanti che portano a Selvino. Poi la macchina però la devi abbandonare, per attaccare un sentiero ripido fino a quando vedi sbucare la casa dietro una fitta boscaglia. «Abbiamo piantato tutti questi alberi per non essere infastiditi dai fari delle auto che risalgono», mi spiegano.

Mario e Rosanna ci accolgono in veranda, piena di fiori, di gatti che gironzolano indisturbati e c’è anche un grande camino con un fuoco spento da poco. L’odore della cenere ancora calda mi riporta indietro nel tempo. E di colpo i problemi quotidiani svaniscono e mi sento invadere da un benessere inconsueto.
Ogni angolo è occupato da oggetti, ricordi di spedizioni in terre lontane, foto. Ogni cosa sembra volerti narrare una storia.

Mario e Rosanna in cima alla Presolana (ph: Mario Curnis)

Mario Curnis e Rosanna Giudici (ph: Roberta Orsenigo)

Mario Curnis con uno dei suo diari (ph: Roberta Orsenigo)

La cordata Curnis-Giudici è di sicuro quella che più di tutte ha toccato le cime più alte. «Una coppia forte spacca il mondo».

Mario mi mostra subito i suoi diari con fogli rigorosamente a quadretti, fitti di ricordi scritti con una grafia minuta e ordinata, che lui abbozza in una stesura provvisoria per poi riportarli in bella copia. Sbirciando l’ultima pagina del quaderno che sta sfogliando, noto che è numerata con il 779. Mi dice che ogni giorno dedica alla scrittura dalle due alle tre ore, mentre Rosanna si immerge nei suoi libri. «Oggi nessuno scrive più nulla. Un diario è la cosa più bella che puoi lasciare», mi confida. «Ho sempre scritto durante tutte le mie spedizioni. Una volta persino sulla carta igienica perché non avevo i miei quaderni. Tutti abbiamo qualcosa da raccontare».

Quando gli chiedo cosa scrive nei suoi diari, Mario diventa evasivo: «I miei pensieri, i miei amici, i ricordi belli. Durante le spedizioni, la quotidianità, dediche alla famiglia». Riguardo alla moglie, aggiunge con ammirazione: «Lei invece legge in continuazione. Ha una cultura fuori dal comune e una memoria straordinaria. Ricorda i nomi di tutti i luoghi che ho visitato, paesi che neanch’io so di avere attraversato».

Parlando, capisco che Rosanna è stata fondamentale per la carriera alpinistica del marito e che tutto il suo sapere deriva dal fatto che dietro ogni spedizione c’era lei, invisibile ma sempre presente. «Organizzavo il viaggio, la logistica, i materiali. Se ad esempio la destinazione era il Nepal, contattavo il Governo per chiedere le autorizzazioni, i tempi, i costi. Scrivevo alle mogli degli alpinisti, spiegavo l’importanza di avere un’assicurazione e soprattutto le procedure in caso di morte del marito. Gli procuravo piccoli quaderni, per quando avesse avuto la necessità di scrivere anche in alta quota. Calcolavo le spese e siccome Mario non ha mai voluto sponsor, dal patrimonio aziendale cercavo di ricavare i soldi per finanziare le spedizioni, che costano in media tra i cento e i centocinquanta milioni di vecchie lire».

Rosanna si documentava sul Paese, la cultura, la lingua. «Ho invidiato i viaggi di Mario. Con lui sono andata solo in Patagonia. Aiutarlo nei preparativi e conoscere ogni particolare delle sue destinazioni era un modo per stargli vicino, per esplorare insieme, seppur a distanza, quei luoghi lontani. Non gli ho mai chiesto di rinunciare a una spedizione perché sapevo che l’alpinismo era il suo sogno. Io e i nostri figli, Antonio e Angelo, siamo sempre stati orgogliosi delle sue imprese». Mario ride, le fa una battuta ma si percepisce un’incredibile intesa. Se è vero che il segreto di una buona spedizione è il compagno, direi che la cordata Curnis-Giudici è di sicuro quella che più di tutte ha toccato le cime più alte. «Una coppia forte spacca il mondo», ripete più volte Mario.

Rosanna incontra per la prima volta Mario nel 1968, all’età di 17 anni, durante una gita domenicale al rifugio Brunone, in Valbondione, sulle Orobie bergamasche. «Mi è piaciuto perché aveva carisma, umiltà. E gentilezza. L’escursione seguente siamo saliti sulla Presolana. Lì mi ha chiesto di essere la sua fidanzata e ci siamo dati il primo bacio».

Rosanna è una fonte inesauribile di aneddoti. Mi racconta di quella volta quando, di ritorno da una spedizione, Mario e i compagni hanno fatto scalo a New York, una città immensa per chi vive in piccoli paesi e arriva da cime inviolate. Insomma, la paura di perdersi era così tanta che il gruppo si legò come in cordata, uno in fila all’altro lungo la Fifth Avenue. Nel 1968, invece, lo scalo fu a Rio de Janeiro, in Brasile, proprio nel periodo del carnevale. «Arrivavano dalla Patagonia, dove avevano scalato lo Scudo del Paine, la prima estiva. Insomma, tutte quelle ballerine mezze nude li avevano accerchiati e chiedevano di essere baciate, mentre loro cercavano di spiegare in bergamasco che era peccato!».

Mario all’Everest nella spedizione del 1973 (ph: archivio Curnis / Rizzoli)

Mario Curnis e Simone Moro in cima all’Everest, 24 maggio 2002 (ph: Simone Moro)

Mi sono salvato, come sempre, grazie alla scrittura, alla solitudine e al lavoro. Guai alzarsi e non avere niente da fare. Meglio morire.

Delle sue imprese Mario parla poco. Si emoziona ricordando la prima spedizione invernale sul Makalu(3) con l’amico Renato Casarotto e lo svizzero Romolo Nottaris, impresa conclusa a quota 7400 metri, dove rischiarono di lasciarci la pelle per il freddo, la sete e soprattutto la fame. «Ero sicuro che sarei morto. Prendevo il mio quaderno e scrivevo tutto. Non era facile, ma volevo lasciare i miei pensieri nel caso lo avessero trovato. Alla fine ci salvarono degli sherpa che salendo dal versante opposto ci diedero patate e uova», ricorda Mario.

Gli chiedo cos’ha provato quando nel 2002, all’eta di 66 anni, è riuscito finalmente a toccare la cima dell’Everest con l’amico Simone Moro(4), un sogno durato trent’anni e realizzato dopo due tentativi falliti. «Niente. L’ho sognata così tanto ma poi, arrivato lì, a parte le bandierine non c’era nulla. È stata più emozionante la lunga attesa».

Tra i due alpinisti si percepisce l’esistenza di un legame profondo, temprato sulle altezze ma che negli anni è andato oltre la semplice passione per la montagna. «Con Simone ho affrontato sfide che hanno cementato la nostra amicizia. Nel 1999 abbiamo conquistato in 33 giorni quattro delle cinque montagne più alte della Russia, impresa che ci è valsa l’onorificenza Snow Leopard, un riconoscimento importante che l’ex Unione Sovietica riconosceva agli alpinisti(5)».
Tra le imprese condivise c’è anche la traversata integrale delle Orobie, al confine tra le province di Brescia, Sondrio e Lecco. Su proposta di Mario, nel 2000 i due hanno intrapreso una ‘passeggiata’ di circa 150 chilometri, affrontando le creste di cento montagne tra i duemila e i tremila metri. «Sono stati tredici giorni intensi in cui abbiamo condiviso ogni respiro, ogni fatica, ogni emozione. Ci siamo mossi in un ambiente selvaggio, spesso senza tracce, affrontando vette i cui nomi non comparivano neppure sulle mappe e muovendoci in un ambiente insidioso e per niente facile».

Sul rapporto con la morte, Mario esprime una visione netta, frutto della sua lunga esperienza: «La montagna d’alta quota non è un luogo dove l’uomo può vivere. Un alpinista deve essere consapevole di affrontare rischi potenzialmente fatali ogni volta che si mette in gioco». Riflettendo sul suo approccio, aggiunge: «La mia attenzione era sempre al massimo. Durante le spedizioni, mi isolavo completamente. Famiglia, amici, affetti passavano in secondo piano. La mia concentrazione era interamente focalizzata sull’obiettivo da raggiungere per evitare anche il minimo errore che in montagna può essere comunque fatale».

Oggi Mario ha 88 anni e sulle spalle prove titaniche superate con coraggio e determinazione: la povertà e la fame, spedizioni rischiose, problemi economi e di salute. «Qui viviamo bene grazie a Simone Moro, che dopo il fallimento della nostra attività ha acquistato la baita ormai all’asta concedendoci il suo utilizzo». La perdita dell’azienda avvenne nel 2010: «La mattina hai tutto e la sera niente. Dopo sessant’anni di lavoro ci siano ritrovati senza casa, beni, soldi. Ho avuto una forte depressione e un tumore molto aggressivo, così sono andato a vivere per un anno in alta montagna con cento capre e cinquanta capretti.

Stare da solo mi ha permesso di ritrovare la forza mentale per riprendermi. Ho perfino rifiutato l’intervento chirurgico e accettato solo la cura farmacologica per restare lì, dove ero sicuro di poter guarire. Mi sono salvato, come sempre, grazie alla scrittura, alla solitudine e al lavoro. Guai alzarsi e non avere niente da fare. Meglio morire».

_____
1) Diciotto castagne, di Mario Curnis e Angelo Ponta (ed. Rizzoli, 2022).
2) Imprese e spedizioni più importanti – Numerose scalate soprattutto in invernale nelle Dolomiti, nel gruppo dell’Adamello e Presanella, nel gruppo del Bernina, nelle Alpi svizzere e sulle Orobie. Tra le spedizioni extraeuropee: Ande peruviane; Ande patagoniche; Everest (1973, 1994 due tentativi falliti e 2002 con Simone Moro); Himalaya; Pamir e Tian Shan (Snow Leopard).
3) Con i suoi 8485 metri di altezza, il Makalu è la quinta montagna più alta del mondo. Si innalza sul confine tra Nepal e Cina, circa 19 km a sud-est del monte Everest. A causa delle sue creste taglienti e della sua posizione remota, che la espone agli elementi atmosferici, è una delle montagne più difficili da scalare al mondo. L’unica cordata che riuscì a portare a termine la salita invernale sul Makalu fu quella formata da Simone Moro e Denis Urubko. Era il 9 febbraio 2009.
4) Il 24 maggio 2002 Mario Curnis e Simone Moro hanno raggiunto la cima dell’Everest (8850 m).
5) La spedizione guidata da Simone Moro comprendeva, oltre a Mario Curnis, Denis Urubko e Andrey Molotov.

Mario Curnis – ph. Matteo Zanga
Roberta Orsenigo

Roberta Orsenigo

Sono giornalista pubblicista, copywriter e autrice di testi per produzioni video.


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