Mi spiazza e allo stesso tempo mi fa riflettere sul potere dei legami di sangue, magici e indistruttibili anche quando la morte ti porta via le persone che ami. E Rosa questo lo sa. Perché sulle cime che non ha mai smesso di raggiungere ci ha lasciato non poche croci.
La storia di Carlo Nembrini ancora oggi viene raccontata anche da chi non l’ha conosciuto. Sì, perché è una storia di altruismo che ha lasciato il segno. Mio zio Carlo era il capo spedizione di una cordata che aveva raggiunto il Nevado Illampu, la quarta montagna più alta della Bolivia (6368 m). Di ritorna a La Paz, lo informarono dell’incidente occorso a un alpinista francese e alla sua guida boliviana durante la scalata del Monte Illimani. I famigliari chiesero a mio zio e al suo gruppo di aiutarli a recuperare i corpi. Ritrovato quello della guida, Carlo decise di effettuare un ultimo tentativo per l’alpinista francese, ma proprio in quell’occasione perse la vita.
Che ricordo hai di tuo zio?
Quando è morto avevo sette anni, ma ricordo tutto. Ho preso da lui la passione per la montagna, mi metteva in spalla e giù, con gli sci. Aveva un sacco di amici, la casa era sempre piena di gente e tutti gli volevano bene. A volte, era talmente preso dai suoi interessi, che mi dimenticava su qualche pista.
Quando hai cominciato a frequentare la montagna da alpinista?
Da quando conosco mio marito, Sergio Dalla Longa1. Avevo 22 anni e mi abborda mentre sto andando al lavoro in bicicletta. Sono tecnico radiologo e a quei tempi lavoravo all’Ospedale Maggiore di Bergamo2. Per farla breve, alla fine ci siamo sposati. Sergio mi ha iniziata alla montagna: la prima via scalata insieme è stata sulle Dolomiti, la Via Ferhmann Campanile Basso, la seconda è stata la cresta Kuffner, Mount Maudit, Monte Bianco. Ho capito subito che quella era la mia vita. Sono state l’inizio di una lunga serie di scalate e di viaggi in posti remoti alla ricerca di pareti inviolate: Groenlandia, Sud Africa, Namibia, Isola di Baffin in Canada, Giordania, Perù. A elencarle ora sembrano mete facile, ma in quegli anni si andava all’avventura, senza supporti tecnologici, senza satellitare. In alcuni Paesi si comunicava ancora con i telefoni a manovella.
Non eravate alpinisti professionisti: come riuscivate a viaggiare così tanto?
Non avevamo sponsor, quindi con i nostri soldi. Poi cercavamo di concentrare le spedizioni nei periodi delle ferie oppure ci inventavamo qualche trovata. Nel 1994, per scalare il Broad Peak in Pakistan, spedizione organizzata dal GAN3 di Nembro, ci siamo sposati per sfruttare il congedo matrimoniale.
Qual è stata la prima lezione che ti ha insegnato tuo marito?
Il suo era un alpinismo classico, solo materiale indispensabile e pareti poco chiodate. Mi diceva: leggi tutti i libri che puoi e fatti un’idea di quello che potrebbe diventare il tuo alpinismo.
Una donna straordinaria! Grazie per avercela fatta conoscere
Buongiorno Simonetta, sì, Rosa è speciale. Ha saputo convertire il dolore in voglia di vivere. So che in queste settimane sta aprendo una via da qualche parte in Nepal.
lasciando da parte il curriculum alpinistico…che ci vorrebbero due vite. Mi ha colpito l’assoluta simbiosi con l’attività ( sembra più che con l’ambiente) che le ha donato una forza tale da affrontare vicende devastanti e proseguire in linea retta. Davvero straordinaria! grazie per la bella intervista!
Buongiorno Roberto, ha perfettamente ragione. Rosa ama profondamente ciò che fa. E dall’amore, in questo caso per la montagna, possono solo nascere legami indissolubili.