Colli e città
Ogni cosa comunica attraverso le vibrazioni della luce stessa, quando camminando lungo gentili sentieri di collina ci si apre la via verso i molteplici piaceri che questi luoghi bergamaschi, miracolosamente o quasi preservati dal massacro paesaggistico circostante, possono ancora offrire. I boschi sì degradati, ma memori della passata bellezza, ne ammantano di verdi i versanti a bacìo. Là dove sottoterra giace ancora un acquedotto tardoantico ormai in rovina, un sentiero serpeggia agile tra le scure vallecole e i viscidi rivi che dal piede buio del colle si arrampicano, striscia seguendo l’acquedotto lungo gli affioramenti di arenaria paludandosi di rovi.
Sui morbidi crinali del Colle dei Roccoli, rivolti verso le montagne appena più a settentrione, le vecchie strutture adibite all’aucupio, arte oggi dimenticata, torreggiano perdute tra le nuove boscaglie di ritorno. Simili a torri di avvistamento, non sono più visibili perché risucchiate dalla vegetazione circostante; un tempo dovevano aprirsi agli spazi sconfinati degli orizzonti pedemontani, oggi sfigurati dal disordine della città tumorale. Seguendo ancora gli antichi tracciati, salendo dolcemente verso l’alto colle San Vigilio, appare prima o poi finalmente la vecchia decana, la città antica, irreale nelle sue vesti di sasso e i rintocchi vibranti delle campane che dalle sue chiese a decine risuonano. Silenziosi e alteri, i profili dei palazzi medievali risaltano nella fredda luce primaverile come intessuti nella trama luminosa di un sogno lucido.
Le pietre di arenaria cupa, ancora umida dal passato acquazzone, ornano di corsi regolari il movimento continuo del costruito storico; enormi mura cinquecentesche, fluide e imponenti, abbracciano la città nelle curve dei baluardi, attraverso il disegno sobrio (che sotto quella luce appare nitido quasi fosse il progetto tecnico e preparatorio delle stesse) degli archi di scarico e delle orbite nere delle cannoniere, elegantemente affiancate tra loro.
Spesso ho rimirato da qualche costa collinare lontana, nelle mattinate perse delle scuole superiori, quelle geometrie e quelle diverse prospettive, cogliendone i particolari nel movimento vibratorio della luce primaverile. Immerso mio malgrado in quello spettro diamantino, provato da esondazioni ormonali e dalle percezioni sporadicamente alterate da devastanti episodi di depersonalizzazione, ancora una volta cercavo nella visione stabile dei profili dei palazzi secolari un solido ancoraggio ad una realtà che andava disfacendosi giorno dopo giorno. Più tardi mi accorsi che l’unico modo efficace per sfuggire a quella vertigine incontrollabile era la fuga terapeutica nel tempo indeterminato dell’inumano.
Scomparire nei luoghi dell’abbandono, risucchiato da vestigia silvestri: credo di aver passato più tempo nelle solitudini della natura che tra la compagine umana, negli anni della mia giovinezza. Tornando ai colli bergamaschi – non che me ne sia mai veramente andato, da lì, come per l’attaccamento che si possa avere nei confronti di certi sogni dell’infanzia – la selvatichezza di ritorno dei versanti settentrionali, malamente boscati, viene d’un tratto spezzata scendendo lungo certi crinali che affacciandosi sulla pianura di cemento e acciaio sottostante portano lo sguardo lontano fin verso gli Appennini.
Le mulattiere, le scalette e i sentieri limitati dai muri a secco che sprofondano nella profondità argillosa dei colli sono tutti intagliati nella morbida arenaria grigia estratta in recessi poco distanti, conducendo alle antiche cascine che dominano i campi terrazzati, oggi spesso mangiati dai rovi.
In questa stagione, la primavera ormai matura, una volta le frasche accoglievano i viandanti provati dal cammino, offrendo loro primizie d’orto, di stalla e di vite; l’ubriachezza leggera offerta dai sapidi vini dei colli rafforzava il desiderio di andare oltre, verso la città antica e ancora popolosa. Non accompagno oltre i loro passi secolari; torno sui miei, ubriaco di nostalgie, sui passi della giovinezza che evapora al sole della disintegrazione, e come un fantasma sottile, scendendo lungo declivi invasi da vegetali infestanti, giungo dopo secoli nel bosco silenzioso dei ricordi ammuffiti, al piede settentrionale dei colli.
Bellissimo, grazie!
Grazie Marco… è sempre piacevole leggerti.Grazie di aver donato un pezzetto del tuo cuore.