Come lo scultore, piccole o grandi, toglie le schegge e spacca il marmo per far uscire la sua opera, così per millenni aveva inciso l’imponente massiccio di calcari, riemerso dalle lave e dalle ceneri sotto le quali era rimasto sotterrato per milioni di anni. Precisione, pazienza infinita, alternata a violente piene, avevano allontanato a mano a mano i margini della spaccatura.
E ora che la scimmia nuda gli ha affibbiato un nome, incurante dello stupore, della meraviglia, degli interessi di noi umani, inarrestabile tra piccoli e grandi salti, trascina sabbie e ciottoli, macigni e frammenti di distruzione costruttiva. Schiumoso nel gorgoglìo di cascatelle, placido e brillante respiro nelle anse piane e nelle pozze trasparenti, il canto liquido risale le due pareti, ormai rassegnate all’incolmabile distanza. Arbusti, muschi, felci, eroici abeti, abbarbicati su strette balze puntano alla luce. Piccoli scrosci escono improvvisi dalla striscia di cielo e lunghi veli di gocce polverizzate coprono le rocce.
Altro modo non c’era per raggiungere dall’agordino il luogo dov’ero diretto. Un sentiero che condivideva il corso del torrente in più punti, sistemato da secoli per raggiungere i prati alti ai piedi del Vallon d’Antermoia e dei Monti dell’Ombretta. Versanti del massiccio della Marmolada che più di altri alimentavano le acque dirette a valle, nel Cordevole, verso il Veneto. Incise sulle pareti qualche metro più su di dove stavo passando, tracce di percorsi umani antichi, frantumati come il resto del canalone dall’instancabile lavorio delle acque e, a quei tempi, dalle frequenti rovinose ondate di piena.
Da qualche anno nei Serrai ne confluivano ben poche. Le più si univano sottoterra alle condotte di scarico provenienti dal lago artificiale ai piedi del ghiacciaio della Marmolada e delle balze, ripide e scure, di Porta Vescovo e della Mesola. Turbinavano in ben sei centrali, da Malga Ciapela alla lontana Sospirolo, prima di confluire a rinforzare i deboli rivoli della Piave, ormai orfana delle zattere di legname e in difficoltà nello spostare i cumuli di ghiaia a sud di Belluno.
Mi hai fatto voglia di solcare quei sentieri, però forse è troppo tardi
Complimenti
Ho salito la Marmolada dalla Forcella omonima per la via ferrata e discesa per il ghiacciaio alcuni anni orsono. Arrivati alla fine del ghiacciaio sono rimasto sorpreso, nel vedere come erano pulite e chiare le prime rocce incontrare e come il rifugio Fiacconi era già abbastanza distante dal bordo del ghiacciaio. Questo mi ha fatto pensare che pochi anni prima dovevano essere ancora coperte dal ghiaccio da chissà quanti millenni. Il perderli, i ghiacciai, che magari in parte è per colpa nostra che non vogliamo capire il disastro che andiamo causando. Auguriamoci di prenderne coscensa.
Per due anni all’inizio degli anni ’70 quando la cestovia sostituì la seggiovia aiutavo nella gestione estiva l’amico e Guida Alpina Azzurro proprietario del rifugio al pian dei Fiacconi. La mattina partivo segnalando i crepacci più pericolosi ed arrivavo alla capanna di punta Penia, portando a spalla anche gli approvvigionamenti necessari per il modesto servizio ristoro, attrezzato sopratutto per chi arrivava percorrendo il ghiacciaio ma anche per chi arrampicava sulla parete sud o chi con la ferrata percorreva la cresta ovest e, a quei tempi anche dalla parete nord, una bella via di ghiaccio che ovviamente veniva fatta quasi in notturna. Libero dalle incombenze del rifugio percorrevo il ghiacciaio in lungo e largo raggiungendo poco sopra il pian dei Fiacconi gli incredibili seracchi con riflessi azzurrini e verdi; e il ghiaccio c’era eccome, bianco come d’inverno, a volte anche in estate le temperature notturne scendevano di parecchi gradi ghiacciando il tubo dell’acqua prelevata direttamente dal ghiacciaio poco dietro il rifugio