Marina Consolaro / Pericoloso dire a me di scrivere un commento alle due giornate trascorse in Valle del Mis: potrei andare avanti ore. Anni fa mi piaceva scrivere alle Lettere al Direttore di un quotidiano, interloquendo su temi caldi, per lo più educativi e spesso il mio contributo veniva pubblicato con la risposta del Direttore. Ma mai avevo vinto un premio per un mio scritto. Potete immaginare l’euforia ma anche la tensione di andare in un posto nuovo, dove non conoscevo nessuno, lontano e portando una storia… faticosa. Certo, come dice Valter (mio marito), mi sono costati molto quei tre libri del mio premio e ci ho impiegato meno a scrivere il testo “Ad ognuno il suo monte Analogo” che fare andata e ritorno Varese/Valle del Mis/Varese.
Arrivare in Valle ad un’altezza non tanto maggiore di quella di Varese, ma immersi nel verde, con un bel lago seppure artificiale, una valle selvaggia che ci ha regalato “monti pallidi” sullo sfondo e pendii scoscesi e verdi da ogni versante, è stata una bella sorpresa. E poi le persone.
Mentre salgo verso il tendone attrezzato per l’incontro, un caldo “Ciao, Marina” mi stupisce e mi fa fermare immediatamente: sembra la voce di una persona che mi conosce da sempre e che mi rivede dopo un po’ (e forse è un po’ così…): è la nostra Presidente di Giuria che solo il giorno dopo scopro essere la persona cui ho fatto un semplice ‘complimento’ tempo fa dopo la lettura del suo articolo su Miotto.
Non ricordavo nulla, nemmeno il nome di Miotto se non per averlo incontrato nel libro di Marco Albino Ferrari che sto terminando ora. Va’ a capire come lavora il nostro cervello alla nostra età e soprattutto quando la vita lo ha messo a dura prova. E poi si susseguono interventi (Buzzati, Rigorni Stern) e poi i vincitori dei premi: non di tutti avevo letto su Altitudini (mi rendo conto che faccio proprio una vita di “m” se non riesco a fare quello che mi piacerebbe fare).
E poi la cena… sobria (dal matrimonio di mia cugina trent’anni fa non mangiavo così tanto in un ristorante!) che ci ha rubato un po’ di tempo ma in realtà ci ha permesso di conoscere le persone che avevamo a tavola vicine e che ci hanno raccontato squarci di mondo che noi non vedremo mai: ma che importa! Ce li hanno regalati loro, con il loro entusiasmo e il loro sguardo pulito sul mondo.
Il momento più temuto si avvicinava: nel cuore di una serata arricchita di stelle e luna, con un freschino che a 400 metri a giugno ti scordi, con un pubblico di un’attenzione e di una capacità di ascolto cui non ero più abituata, è il momento di ricevere il mio premio, ma soprattutto è il momento di raccontare la mia storia. Nessuno di noi ha il coraggio in quell’atmosfera magica di dire che il mio racconto ha come centro la morte di mio figlio Matteo. Troppa roba. Alcuni che non avevano letto il racconto non capiscono di cosa si stia parlando, almeno fino ad un certo punto. Ma poi vado, prendo il microfono e parlo di Casa Matteo che è il nostro guardare avanti in nome di Matteo in favore di altri giovani. Il silenzio che si forma attorno è commovente, palpabile e si rompe con l’applauso liberatorio finale. Grazie. È un’emozione forte, molto.
Andiamo alla nostra casetta che condividiamo con una simpaticissima coppia romana, Giulio e Debora, di cui mi porto a casa lo stupore per quanto io e Valter siamo stati silenziosi nel riordinare casa e uscire all’alba, l’abbraccio caldo e forte di Debora al saluto finale, ma anche un’e-mail ed un numero di telefono: non si sa mai che andiamo anche a Roma o che lì ci finisca il nostro figlio clarinettista prima o poi per qualche concerto.
Il resto è camminata nel bosco, salita, fiatone, sudore, caldo, chiacchierata via via con diversi ‘colleghi’ di altitudini; è laboratorio di scrittura, è ascolto di storie calde, belle, di racconti da chi quei luoghi li vive da sempre pur avendoli lasciati per un gran numero di anni. Il resto è scoperta di un amore per la propria terra che non è amore esclusivo ma condivisione di racconto, di clima. Ti senti a casa e senti il bello di vivere la montagna così e non come sfida, competizione, fuga dalla città, dai propri pensieri bensì come dimensione della vita, del condividere, del completarsi ascoltandosi e camminando insieme. Per poi tornare ciascuno alla sua vita. Io però ci torno con una nostalgia in più: quella di non riuscire ancora a vivere così la quotidianità, la ferialità, ma solo la ‘festività’, l’eccezione e non la regola.
Un ultimo regalo la Reunion me lo ha dato nell’incontro con Elia, il nostro giovane accompagnatore, l’ultimo che ho salutato lasciando la Valle, sperando quasi di non incontrarlo per non far succedere quello che poi è successo: un pianto dirotto nell’abbracciarlo. Perché sì, Elia assomiglia moltissimo fisicamente a Matteo ventenne: stesso taglio e stesso colore di capelli, stessa rosa in cima e ricciolino sulla nuca, stesso modo di tenere le mani in tasca e la schiena diritta con lo zaino indossato, stesso profilo… Gli ho regalato la foto del nostro Matteo mentre mi scusavo ma, accidenti, non avrei sciolto quell’abbraccio mai perché per un attimo, ho sognato di essere ancora abbracciata a Matteo.
Il 07 agosto 2020 mi ha sottratto tantissimo, l’indicibile, ma mi sta regalando tanto: innanzitutto uno sguardo nuovo sulla vita e la libertà di essere ciò che sono stata chiamata ad essere.
Info:
Casa Matteo Varese. Progetti e attività con i giovani e per i giovani.