Tracce n°2
testo e foto di Umberto Isman / Monza (MB)
«Buona gita!» mi augura il ragazzo che lavora al parcheggio degli impianti guardandomi negli occhi come in un cenno di intesa.
Conosco questo itinerario a memoria, è a due passi da casa ed è il classico ripiego se c’è poca neve. Ogni volta però cerco di renderlo diverso, inventandomi nuove varianti. Oggi poi è un giorno buono, nella notte una spanna di neve fresca ha cancellato ogni segno di passaggio.
Mi metto in cammino e appena possibile abbandono la mulattiera. Ho deciso che proverò a stare più a sinistra di tutte le altre volte.
Mentre sono intento a ravanare in un tratto di bosco fitto in cui mi sono infognato, con la coda dell’occhio vedo sbucare da un comodo corridoio tra gli alberi, ancora più a sinistra, un altro scialpinista.
«Ciao!» gli faccio.
«Buongiorno».
«Ma da dove arrivi?».
«Dal parcheggio, come lei».
«Ah, non sapevo che si potesse salire direttamente da lì» gli rispondo sorpreso.
Mentre ci parliamo lo osservo, più che altro lo squadro dalla testa ai piedi. Tipo strano, penso. Noto prima di tutto la sua salopette Gino Trabaldo, in lana tipo principe di galles con inserti di stoffa blu, identica a quella che poco più che ventenne dimenticai in un rifugio e non tornai mai più a recuperare. Poi la giacca Francital di colore indefinito tra il rosso e l’arancione. Infine l’attrezzatura: sci Tua Excalibur arancione fluorescente con fianchi rastremati, attacchi Tyrolia modello “plastic triumph”, scarponi Koflach Valluga Light con gambetto modificato. Potrei essere io 40 anni fa, mi dico. Eccetto il cappello di feltro grigio con screziature nere e due forellini ai lati, cerchiati da piccoli anelli in ottone ribattuto.
«Mi sa che la conosci bene questa gita, eh? Forse anche meglio di me» osservo.
«Niente affatto, è la prima volta che vengo qui e non ho neanche guardato una mappa o letto una descrizione. Però dipende da cosa intende per “conoscere”».
«Senti, siamo più o meno coetanei, io ti sto dando del tu e tu del lei, diamoci del tu, no?».
«Preferisco il lei».
«Vabbè, io mi chiamo Umberto, piacere».
«Piero Sogòli. Sogòli, con l’accento sulla seconda o».
Lascio che sia lui a battere traccia. A dispetto dell’attrezzatura, antiquata e molto più pesante della mia, mi sembra uno forte, soprattutto uno che sa il fatto suo. Sono però così incuriosito dal personaggio che non resisto a fargli subito una domanda diretta: «Ma lei, che lavoro fa?».
«Il tracciologo».
«Cosa?».
«Studio tracce. Di ogni genere. Tutti gli esseri viventi sulla terra seguono o lasciano delle tracce, spesso visibili, altre volte ideali o metaforiche. Io mi occupo di seguirle, di comprenderle, di raffinarle, di tracciarne di mie. Di avere una visione d’insieme di intrecci spesso molto complessi».
«Ah… mi fa un esempio?».
«Senta, non è così facile fare esempi. Però possiamo forse limitarci a quello che stiamo facendo, lo scialpinismo. A me, detto sinceramente, non importa nulla o quasi della gita in sé, dell’ambiente, del divertimento, dello sforzo che fa bene alla salute. Io sono qui per i miei studi. Se ci pensa, lo sci fuoripista e lo scialpinismo sono tra le poche attività umane, forse le uniche, in cui si lascia inevitabilmente e al di là della propria volontà una traccia evidente sul terreno. È questo che mi interessa, studiare le tracce che incontro e ragionare su quelle che lascio io. Mi interessa anche incontrare persone, comprendere il loro modo di muoversi e in parte, per quanto possibile, condividere con loro la mia conoscenza. Perché solo così potrò spingermi oltre, solo se ci sarà qualcuno che avrà compreso quello che ho fatto finora e sarà in grado di seguire la mia traccia. Così come io sto seguendo le tracce di altri che sono venuti prima di me. Il nostro incontro non è casuale, sapevo che lei oggi sarebbe stato qui».
«Proprio io? Come faceva a saperlo?».
«Non esattamente lei, non conoscevo il suo nome e neanche il suo viso, ma sapevo che sarebbe stato più o meno un mio coetaneo, di famiglia ebraica da parte di padre e con un bisnonno ungherese, probabilmente di Budapest, giusto?».
«Sì, di Budapest» rispondo allibito.
Tracce n°2
«So che per lei è difficile capire, e starà pensando che la sto prendendo in giro, ma, mi creda, non è così. Però, se ha voglia, continui a seguirmi, sulla traccia e in quello che le dirò. La conoscenza deve essere progressiva, a partire da basi semplici. La scalata di una montagna è una metafora perfetta del processo cognitivo. Si parte da nozioni di base, accessibili a tutti, e più si sale più i pensieri si raffinano, si elimina il superfluo, si fortifica l’essenziale. Sarà capitato certamente anche a lei di rendersene conto, di arrivare in cima e sentirsi più lucido e intelligente. Io sono totalmente ateo e agnostico, non credo a quelle balle lì del tramite tra la terra e il cielo, dell’avvicinarsi al divino. Credo solamente alla scienza, ed è la scienza che è in grado di dimostrarmi tutto quello che le sto dicendo».
Continuiamo a salire nel bosco, passando da piccole baite di cui ignoravo l’esistenza, nonostante in questa zona ci sia stato mille volte, d’estate e d’inverno.
«So cosa sta pensando» dice Piero. «Lei di qui non è mai passato perché, nonostante abbia sempre cercato di cambiare in parte il percorso, non ha mai avuto il coraggio di fare tabula rasa e inventarsene uno tutto suo, a partire da dove abbiamo lasciato l’auto. Lei evita, io creo seguendo tracce, ma non quelle sulla neve. La presenza di queste baite conferma che questo è l’itinerario migliore, il più diretto».
Con il cervello in ebollizione cerco di elevarmi al livello del mio interlocutore, e gli dico: «Capisco cosa intende. Non si finisce mai di imparare, anche dove sei convinto di sapere tutto, anche nelle cose e nei luoghi più vicini a te. Ho un amico, Annibale, che ha coniato il termine “esotismo di prossimità”; mi sono appassionato al concetto e cerco sempre di metterlo in pratica».
«Conosco la definizione, ma io da quella sono andato oltre, trasformandola in “esotismo di profondità”. È un concetto più ampio, che prescinde dal luogo in sé ed esplora invece la profondità del pensiero. Guardi, le faccio il primo esempio che mi viene in mente, forse banale, ma attiene proprio a quello che stiamo facendo. Ha mai pensato che una traccia di sci può svelare tante cose di chi l’ha fatta, prima di tutto il carattere?».
«Mah…».
«Mi dia retta, da una traccia si scoprono gli indecisi, i distratti, i temerari, gli incostanti, gli altruisti, gli egoisti, e così via. Oppure la loro provenienza geografica, perché ad esempio uno che vive in montagna e quando esce di casa ha solo salita o discesa non andrà tanto per il sottile e tirerà una riga dritta. Facciamo un esempio di traccia di un indeciso. Lo vede quel larice là in fondo lungo questo traverso? Io e lei prenderemmo un riferimento poco sopra o poco sotto l’albero e punteremmo a quello, adattando via via la pendenza alla morfologia del terreno. La traccia di un indeciso invece il più delle volte punterebbe al larice, per poi dover cambiare drasticamente l’inclinazione per passarci sopra o sotto».
«Farebbe la stessa cosa un distratto» ribatto.
«No, è difficile che un distratto prenda l’albero come riferimento. In ogni caso questi sono esempi banali, da leggere però con le lenti della profondità. Parliamo di tracce sulla neve, ma è più che altro una metafora. Le ho detto genericamente che faccio il tracciologo, ma in realtà sono specializzato in psico-socio-tracciologia».
«Sarebbe a dire?».
«Significa che studio le implicazioni psico-sociali delle tracce, in senso lato. Ad esempio, lei ha mai ragionato sull’aspetto sociale delle tracce in salita e in discesa?».
«Non credo».
«Prima di tutto la traccia di salita è sinonimo di collettività, quella di discesa rappresenta invece l’individualità. La salita richiede un vero e proprio progetto, per sé stessi ma soprattutto per gli altri, la discesa invece è più improvvisazione e spesso egoismo. È la stessa differenza che c’è tra progettare un condominio che tenga conto delle esigenze di tutti quelli che lo abiteranno e piantare una tenda solo per sé stessi. Il condominio andrà costruito per accogliere e per durare il più possibile, la tenda invece sarà provvisoria e respingente, costringerà gli altri “campeggiatori” a piantare la propria in un altro luogo. A proposito, tra poco saremo alla malga, sarà certamente chiusa o abbandonata, ma ci possiamo fermare a mangiare un panino dei nostri».
«Come fa a sapere che tra poco troveremo una malga se mi ha detto di non conoscere questo luogo?».
«Dai, questo è facile, lascio a lei il ragionamento».
Do fondo a tutte le mie risorse mentali, forte anche del fatto che, come sto imparando, siamo a metà salita e il mio cervello dovrebbe essere più capace di andare in “profondità”. «Mmm… credo che sia perché siamo a circa 1800 m, lungo un itinerario che da sempre doveva portare da qualche parte, e a queste latitudini tra poco finisce la vegetazione ad alto fusto. Tutte le malghe penso siano state costruite appena fuori dal bosco, per avere il sole, il pascolo, ma anche la risorsa della legna vicina».
«Bravo, vede che sta riuscendo a “seguirmi”?».
Tracce n°3
Tracce n°4
Ci fermiamo alla malga abbandonata. Piero estrae dallo schienale del suo zaino Cassin rosso un piccolo materasso in espanso e ci si siede sopra. «Le pongo un altro quesito, un po’ più complesso. Da qui in avanti, fino alla cima, i pendii diventeranno via via più ripidi e con numerosi cambi di pendenza. Provi a pensare al percorso di salita e a quello di discesa. Avrà sicuramente sperimentato che in generale è più facile trovare la traccia ideale in salita piuttosto che in discesa. Mi sa spiegare perché?».
«Già, è una cosa che sanno tutti, ma credo di non averci mai pensato».
«Lo faccia. Le do il tempo di questo panino che sto mangiando».
«Dunque, forse perché in salita si va più piano e si ha più tempo per ragionare e studiare il percorso».
«No, se si andasse piano anche in discesa sarebbe la stessa cosa».
«Allora perché in salita normalmente si ha una meta precisa, una cima, un riferimento a cui puntare, mentre in discesa è tutto più aleatorio».
«Nemmeno. Provi a pensare di prendere un riferimento anche in discesa, il problema rimarrebbe».
«Ha finito il panino, mi arrendo».
«La spiegazione l’ho formulata così: Su ogni pendio, a ogni cambio di pendenza, in discesa si vede meglio (la visione è più frontale) la parte meno ripida, mentre in salita si vede meglio quella più ripida. Dato che la traccia migliore deve in genere tenere conto soprattutto dei tratti più ripidi, in salita la scelta del percorso è più facile.
Pensi al caso limite di un pendio fatto a gradoni, piani orizzontali e salti verticali. In discesa si vedono solo i ripiani e in salita solo le pareti» enuncia soddisfatto Piero, e, preso in mano un bastoncino, traccia un disegno sulla neve.
Mentre rimango stupefatto a guardarlo e a pensare quanto sia semplice la spiegazione, aggiunge: «Più tardi le formulerò questo enunciato anche per le geometrie non euclidee. Adesso mi lasci andare avanti da solo, abbiamo entrambi bisogno di ragionare. Ci vediamo in cima e lì cercherò di farla progredire nella comprensione di temi più complessi. Le racconterò anche qualcosa in più di lei».
Resto seduto una decina di minuti, immerso in un limbo di stupore e curiosità. Come diavolo avrà fatto a sapere che oggi sarei stato qui? E del mio bisnonno ungherese? Cosa si cela in questo Piero Sogòli? A quale misterioso livello di comprensione ha avuto accesso? Cosa significa questa salita verso la cima insieme a lui? Poi riprendo il cammino. In lontananza scorgo la sagoma del mio compagno di gita; sparisce per brevi tratti e poi ricompare, a distanza apparentemente sempre maggiore. La sua traccia è perfetta, aggira dossi e segue avvallamenti come se ogni volta sapesse cosa c’è dopo. “Io vado dove va l’acqua”, mi disse una volta un famoso alpinista, ma non basta per essere così precisi.
Un ultimo tratto ripido nasconde alla vista il pendio che spiana fino alla cima. Mai ho avuto tanta impazienza e insieme timore di raggiungerla. Adesso dovrei vederlo, forse non ancora, forse la vetta è un po’ più in là, o è sceso un poco oltre per ripararsi dal vento.
Arrivo in cima. Sono solo, incredulo. La traccia di Piero finisce esattamente nel punto più alto. Non ci sono altri segni. Mi guardo intorno, non è possibile. Mi sposto con attenzione fino al ciglio del dirupo per sincerarmi che non sia precipitato, ma non può essere, la traccia si ferma molto prima. Poi con la coda dell’occhio noto qualcosa sul manto nevoso, sulla sinistra, a una ventina di metri. Corro lì. E’ un solco profondo tracciato con il bastoncino. A forma di virgola. Così: ,
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Nota dell’autore: “Il mio racconto “Tracce” si fonda su contenuti originali. Vorrei puntualizzare che se è vero che il “teorema” sulla traccia di salita e di discesa verso la fine del racconto si trova tale e quale su un libro di Nives Meroi, la paternità è del sottoscritto (anzi di Piero Sogòli ;-)), come può testimoniare la stessa Nives o lo scambio di mail tra di noi”.
Che suspense!
Il gorgo della curiosità fa arrivare in fondo sempre più veloci, sperando di cogliere il senso, allettati da teoremi plausibili. Ci si attende che alla fine venga esaudita l’apparente promessa di una comprensione ulteriore, e poi… virgola.
Racconto bello e inquietante! Dopo la virgola cè solo l’incertezza! Come nella vita!
Molto intenso e spunto di molteplici riflessioni.
La virgola finale è stimolo per continuare e approfondire.
Bravo!!!
Racconto onirico e inquietante, da cui ci si risveglia con una virgola…bello!
Davvero una storia unica e inclassificabile, con delle splendide foto.
A me, non so perché, ha ricordato certe pagine di Italo Calvino.
Bravissimo.
Giuseppe G.
27-01-2022
Molto bello e coinvolgente.
La realtà trasuda significati,
Bravo, fratello. Chapeauissimo.
Leggo che tale Pierre Sogol, pensatore e idealista, scienziato e artista, nato nel 1899 (come entrambi i nostri nonni maschi), scomparve in montagna nel 1940, in Engadina, durante una spedizione per trovare riscontro alle sue idee sulla curvatura dello spazio. Una bella coincidenza, non trovi? ; )
Bravo Umberto,
un po come la metafora di Daumal, nel Monte Analogo, quella di lasciare dei segni sulla via impossibile, in modo che altri la trovino e se ne servano.